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Sfincione. Ovvero la “pizza” più amata di Palermo

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Ogni terra narra bocconi di storia, oggi città si ancora alle proprie tradizioni e come per un napoletano la pizza è regina incontrastata, così per un palermitano l’odor di sfincionello risveglia anima e cuore. È sentimento, è morbidezza, è rassicurazione, mordere u sfincioni cavuru cavuro sgombera i pensieri e regala attimi di puro godimento: “chi ciavuru! U coluri c’ha taliari” urlano i venditori nell’esortare ad assaporarne odore, ad osservarne colore.

 

Una delle ipotesi più accreditate è che la ricetta per lo sfincione sia stata ideata dalle suore del monastero di San Vito, nel bel mezzo di una Palermo saracena. Donne che vestono l’abito talare, ma non per questo rinunciano al desiderio di tramandare, provare, sperimentare l’arte gastronomica. Dalle suore, nel tempo, giungono a noi diverse specialità entrate di diritto tra quelle pietanze che vengono nominate e definite tipiche e lo sfincione pare essere una di queste. Morbido come una sfincia (termine che deriva dal latino spongia ovvero spugna), profumato di semplicità, si tratta di una pietanza povera eppure gustosissima, ideale per il periodo festivo. In quasi ogni casa palermitana, la vigilia di Natale e la vigilia del Nuovo Anno si trascorrono mangiando pizza e sfincione contornati da altre delizie. Oggi chiaramente non occorre più attendere la festa per potersi immergere in questo gusto, le massaie lo preparano, i panifici rionali ne sfornano di caratteristico e unico, persino i venditori ambulanti e persino la domenica mattina non smettono di proporlo da colazione a cena.

Farina, lievito, acqua, sugo di pomodoro, cipolle, acciughe, caciocavallo, origano e pangrattato, gli elementi essenziali per ottenere uno sfincione base. Esistono poi mille varianti per esaltare la fantasia: olive nere, carciofi, alcune delle variazioni previste sul tema. In alcune province di Palermo lo sfincione assume contorni diversi, diviene “pane e companatico” o si scolora per essere “bianco” in quel di Bagheria. Lo sfincionello da strada è proposto in tutte le manifestazioni, dalle processioni religiose ai mercatini, e su banchetti mobili si sposta seguendo l’onda di folla. Mezzo secolo di acqua sotto i ponti, ormai è passato il tempo in cui lo sfincione veniva preparato in occasione della conoscenza delle famiglie di due promessi sposi, ma resta comunque un cibo a cui si ricorre quando arriva l’ospite inatteso.

Il tipo di ingredienti usato rendono lo sfincione un piatto davvero originale ed anche chi non ama particolarmente la cipolla, o le acciughe, resterà incantano per la semplicità che ristora, sazia, appaga.

Nota: si tenga presente che la ricetta proposta è un riadattamento casalingo, il “vero” sfincione và cotto nel forno a legna, di una specialità che in ogni casa assume la propria singolare connotazione.

Ingredienti per l’impasto:

350 gr. di Farina bianca 00 (+ quella utile per la spianatoia)

150 gr. di Farina di grano duro

7 gr. di Lievito secco (o 1 panetto di lievito di birra)

10 g. di Sale

10 g. di Zucchero

2 cucchiai di Olio Extra vergine d’oliva

350 gr. (3,5 dl) di Acqua tiepida

Ingredienti per il condimento:

3 Cipolle bionde

3 Cipollotti scalogno

10 filetti d’Acciuga sott’olio

1 tubetto di concentrato di pomodoro

400 gr. di passata di pomodoro o polpa a pezzetti

2 cucchiaio di Olio Evo

Sale, Origano e Pepe q.b.

100 gr. di Pangrattato

Alcune olive nere snocciolate

100 gr. di caciocavallo semistagionato a cubetti

Preparazione:

Disporre le farine miscelate al sale a fontana sulla spianatoia, praticare un buco al centro del cumulo. Trasferire il lievito nell’acqua tiepida, aggiungere lo zucchero e i due cucchiai di olio evo, mescolare e lasciare riposare per qualche minuto in modo da lasciar riattivare i lieviti. Iniziare ad impastare le farine versando al centro della fontana questa miscela di acqua con lievito, zucchero e olio. Incorporare il liquido prima con l’ausilio di una forchetta poi, ad assorbimento avvenuto, continuare a lavorare con le mani l’impasto fino ad ottenere una palla liscia, elastica e soffice. Coprire l’impasto con un canovaccio e lasciar lievitare per almeno un’ora: una corretta lievitazione lo farà raddoppiare di volume. Trascorso il primo tempo di lievitazione, riprendere l’impasto e lavorarlo nuovamente, energicamente con i polsi, per almeno 10 minuti. Dare la forma di un panetto all’impasto, praticare un taglio a croce, coprire con un canovaccio e lasciar lievitare circa 1 ora: deve nuovamente raddoppiare di volume.

Nell’attesa necessaria alla lievitazione della pasta si può procedere alla preparazione del sugo utilizzato come condimento. Pulire e affettare finemente le cipolle bionde e i cipollotti scalogno, passarli in tegame con un cucchiaio d’acqua e lasciare cucinare a fuoco molto moderato, coprendo con apposito coperchio, per 5 minuti o fin quando l’acqua sarà evaporata completamente. Aggiungere alle cipolle appassite i filetti d’acciuga sott’olio, far sciogliere rimestando con un cucchiaio di legno quindi aggiungere due cucchiai di olio extravergine d’oliva (un giro abbondante) e aumentare il fuoco fino a far soffriggere e dorare le cipolle. Abbassare nuovamente la fiamma ed iniziare ad aggiungere i pomodori, prima il tubetto di concentrato e poi la polpa a pezzetti, aumentare il sugo con un bicchiere d’acqua, regolare di sale e pepe e far cuocere coprendo la pentola a fuoco dolce. Di tanto in tanto rimestare e se la salsa risultasse troppo acidula, correggere con un pizzico di bicarbonato. Il sugo si deve restringere e deve cuocere per tutta la restante attesa di lievitazione della pasta da pizza. A fine cottura del sugo, che dovrà risultare dolce per la massiccia presenza di cipolle ormai fattesi a crema, aggiungere un filo d’olio evo a crudo, una manciata di origano e una spolverata di pangrattato, se necessario regolare ancora di sale e pepe.

Accendere il forno e preriscaldare a 220°C. Stendere la pasta della pizza a seconda delle esigenze e delle placche da forno a disposizione, tonde o rettangolari indifferentemente, in ogni caso lo spessore della pasta non deve essere superiore al mezzo centimetro. Distribuire su tutto l’impasto ormai steso, i pezzetti di caciocavallo a cubetti, pezzettini di filetti di acciuga sott’olio, il sugo facendo attenzione a che non sia troppo caldo, le olive nere e terminare con una spolverata generosa di pangrattato. Infornare e lasciar cuocere in forno ben caldo per circa 15-20 minuti circa. A cottura ultimata, aggiungere un filo d’olio a crudo e l’origano.

Tiziana Nicoletti

Ristorante La Lucerna – Porto Palo di Menfi (Ag)

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Il luogo è suggestivo dato che il ristorante La Lucerna si affaccia sul mare. Il periodo è festaiolo, a ridosso del ferragosto, e la gente pullula. Noi siamo in dieci ed abbiamo prenotato un tavolo chiedendo di poter portare con noi un piccolo cagnolino: richiesta accordata, si parte. Ci accomodiamo in un locale ampio ma gremito di gente e di bambini schiamazzanti che corrono per tutta la sala trascinando con sé al loro passaggio borse, giacche e quant’altro.

Pargoli mai ripresi dai genitori impegnati dal canto loro a schiamazzare a propria volta. Ma, si sa, l’estate è anche gioco, scherzo, barzellette e battute: e dunque risate, più o meno fragorose.

Il menu è abbondante:  ad un’ampia scelta di antipasti fa seguito una lunga lista di primi piatti e c’è solo l’imbarazzo della scelta. Ma c’è un limite a tutto, e persino alla scelta dei primi piatti. Giunti all’ordinazione del sesto primo piatto infatti siamo stati bloccati dalla signorina che prendeva la comanda: basta così, i primi sono già troppi ed anzi se ne dovrebbero togliere alcuni, testuali parole. Sentendomi su Scherzi a Parte guardo sbigottita e chiedo il perché, cogliendo lo stesso mio sbigottimento sui volti dei miei nove commensali. La spiegazione è ridicola : in cucina hanno solo tre cestelli, e dunque, si possono preparare soltanto tre tipi di pasta per volta. Le opzioni sono due: o scegliere un primo piatto identico per almeno tre persone, o attendere la disponibilità dei tre cestelli attendendo quindi un tempo biblico mangiando a turno. Atteso il fatto che se non si è in grado di fornire quanto scritto sul menu forse occorrerebbe limitare la lista del menu stesso, ovvero ridurre il numero dei coperti, spiego che la cosa non mi riguarda e che l’organizzazione della cucina in merito ai primi piatti non può essere  un mio problema. Quindi ordino le mie caserecce alle melanzane e pesce spada, ed altri ordinano fettucce ai gamberi, spaghetti ai ricci, cous cous, zuppa di pesce, ravioli alla cernia e busiate fresche al sugo di triglia.

L’inghippo salta fuori abbastanza presto: cous cous e zuppa sono cibi precotti, e dunque non vanno ad affollare i cestelli. Rimangono da preparare 5 primi piatti: come si farà dato che due sono  di troppo rispetto alla disponibilità di cestelli? Semplice: si prende ijn giro il cliente che aveva ordinato le caserecce servendogli invece delle busiate fresche, uguali a quelle di chi le ha ordinate al sugo di triglia. E adesso i conti finalmente tornano: spaghetti, busiate, tagliatelle. Tre cestelli, et voilà, il gioco è fatto. E’ fatto male, molto male: ed infatti le mie busiate tornano indietro dopo qualche vano tentativo di persuasione da parte della signorina di cui prima. I ravioli di cernia arriveranno, prima o poi, ma avrranno almeno il vantaggio di essere gradevoli. Molto male c’era rimasta poco prima un’altra dei miei commensali che, desiderando ordinare il risotto alla pescatora, si era sentita rispondere che il riso nel fine settimana non lo fanno perché “blocca la cucina”: di stupore in stupore, decidiamo che non è il caso di approfondire sul significato recondito di quella frase alquanto sibillina. Prendiamo per buono il fatto che il riso non c’è, e ce ne facciamo una ragione.

Tanta attesa per le mie caserecce alle melanzane e pesce spada non valeva proprio la pena: l’olio sporco in cui erano state fritte le melanzane guastava irrimediabilmente  il gusto del piatto. Sono rimaste li, quasi intonse.

Sorte simile è toccata alle flaccide busiate fresche al sugo di triglia: troppo forte, al punto da farci pensare che la pasta fosse stata cotta in acqua di mare. Un afrore decisamente pungente per un piatto oberato di peperoncino oltre ogni buon senso.

Gli spaghetti ai ricci di mare sono invece accettabili, come pure le fettucce ai gamberi che hanno però patito – anche loro – un’ingiustificata spolverata di peperoncino che ha in parte ammazzato il gusto delicato del gambero.

Poi, a questo punto, il piccolo colpo di scena: il nostro cagnolino ha un sussulto, un singulto, ed emette un flebile “bau”. Il cane non raggiunge i venti centimetri in altezza e sta in una tasca: da questo vi lascio immaginare l’entità del suo verso. Siamo stati immediatamente ripresi e diffidati dal far abbaiare il cane perché gli altri clienti potevano disturbarsi. Forse: ma sempre meno di quanto i figli dei suddetti clienti avessero già abbondantemente disturbato noi. Registriamo il rimprovero e Jack  – il piccolo cane – tace per il resto della serata: non perché gli si sia  avvolto il muso nello scotch da pacchi, quanto piuttosto perché è un cagnetto educato, a  differenza di molti dei figli dei molti clienti di questo ristorante.

In sostanza un pasto molto deludente. Scadente la qualità di piatti e pessimo il servizio, che non si potrebbe neanche elevare al rango di taverna. Ho trovato le spiegazioni interne alla cucina ineleganti e soprattutto non necessarie dato che, appunto, l’organizzazione della cucina non è fatto che possa riguardare gli avventori.

La pizza, ordinata nell’attesa delle altre portate, ha un che di consolatorio: infatti è l’unica cosa veramente buona che abbiamo messo sotto i denti insieme a dei raviolotti di ricotta dolci che hanno allietato papille estremamente deluse.

I suddetti dolci però sono facilmente reperibili in qualsiasi supermercato e sono surgelati: basta tuffarli in olio e cospargerli di zucchero a velo e la magia riesce facilmente a tutti.  Il conto di circa 25 euro a testa risponde a tante domande ma non compensa per un cattivo pasto e per un servizio  ancora peggiore fatto di divieti, spintoni ( sia pure involontari) e rimproveri di vario tipo: anche la mia obiezione sul fatto che le busiate non assomigliano neanche lontanamente alle casarecce è stato  accolto con fastidio e mi è stata usata la benevolenza di portarmi, con annoiata condiscendenza, quanto io avevo in effetti ordinato sin dall’inizio.

In poche parole questo non è un posto che mi sento di consigliare, malgrado diversi blasonati adesivi sulla porta. Per  abbindolare un cliente occorre qualcosa di più che un paio di adesivi.

Alessandra Verzera

Burgio: città di campane, ceramica e buona cucina

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ceramica1Ho avuto la fortuna di conoscere il Dottor Antonio Savoca all’ospedale di Sciacca. Se fortuna si può definire essere in vacanza e finire in ospedale vittima di un atroce mal di denti. Ma se, in agosto e con il mal di denti, trovi di guardia un dentista, allora probabilmente si tratta di fortuna. Se poi quel dentista ti restituisce istantaneamente il sorriso ed è una bella persona estremamente cordiale, acquisisci una certezza: si tratta di fortuna.

Che nessuno se ne abbia a male, ma io non adoro i dentisti: mi inquieta già quell’eterno odore di etere che si portano addosso. Una fobia non risolta, probabilmente, ma estremamente comune. Ma devo ad un dentista una gran bella giornata in un paese a torto ignorato dai grandi flussi turistici: Burgio, ad una ventina di minuti da Sciacca, dove io stavo trascorrendo un breve periodo di ferie. Il tutto avviene casualmente, quando persuasa a prendermi cura della mia dentatura dopo essere stata sotto la mano di seta del dottor Savoca, gli chiedo se per caso non abbia uno studio a Palermo. Purtroppo no: lui è burgitano doc e il suo studio è a Burgio. Burgio: faccio mente locale e ricordo di conoscere da una quarantina d’anni una famiglia di Burgio. Solo per questo mi ricordo dell’esistenza di questo paese, che diversamente avrei ignorato. Così il simpatico medico si offre di farci da Cicerone, e ci accordiamo per il giorno successivo: uno dei più roventi giorni d’agosto da qualche anno a questa parte. Ci muoviamo in blocco: figli e cane compreso, e via verso quel paese.

Ma il bravo medico non ha soltanto salvato uno dei miei quarti ed il resto delle mie vacanze: ha salvato qualche anno fa qualcosa di molto più importante, e cioè uno splendido abbeveratoio ottocentesco che le ruspe dovevano radere al suolo per lasciare il posto a palazzi nuovi. In quell’occasione fu lui a pararsi davanti alle ruspe e a dire : ” dovrete portare via anche me con quelle ruspe”.Sta di fatto che sia medico che abbeveratoio sono rimasti li dov’erano, per fortuna. Ma c’è anche un Cristo in ceramica del 1763 appeso in strada a cui il medico ha portato almeno un po’ di luce con una lampadina ed un filo volante ( foto nel titolo). Ed è un miracolo che quel Cristo sia ancora li, seppure danneggiato, visto che è sprovvisto di qualsiasi protezione che possa dissuadere ladri e vandali: ” Non immagina quante volte abbia fatto presente la questione all’amministrazione comunale” – dice Savoca – ” Una teca: solo un lastrone di vetro, e il Cristo sarebbe al sicuro. Poche decine di euro. Lei crede che mi abbiano dato ascolto? A parole la teca l’hanno messa ogni volta il giorno dopo, ma nei fatti sono anni che il Cristo attende”.

Ed infatti non gli hanno dato ascolto: e quel capolavoro di majolica rimane alla mercè di chiunque.

“Il paese si sta svuotando perchè i giovani già da tempo vanno via per assoluta mancanza di prospettive” – dice il dottore. “Io stesso, ogni volta che ne ho l’occasione, tento di evadere un po’ anche se poi in fondo rimango molto legato al mio paese: ma comprendo chi se ne allontana per sempre.”

In effetti in giro c’è ben poca gente, anche per via del caldo, certo, ma soprattutto perchè a Burgio non c’è più quasi nessuno.

C’è però una nota fonderia che da cinquecento anni forgia campane, e che ha portato Burgio all’interesse della stampa nazionale e davanti alle telecamere di programmi nazionali di successo. Una tradizione unica ed un mestiere scomparso: la Fonderia Campane Virgadamo è di fatto l’unica della Sicilia ed anche una delle pochissime rimaste in Italia.Le campane che escono da quelle fornaci vanno in tutto il mondo. Una di queste campane è quella che rintocca alla Chiesa della Magione di Palermo.Ma non solo campane è Burgio, bensì anche ceramiche: anch’esse dalla secolare tradizione.

“Tutta la simbologia delle nostre ceramiche nasce dall’esaltazione di un ramo di ulivo, che è un simbolo molto forte del nostro territorio” – spiegano i ceramisti Paolo e Giuseppe Caravella.

” Partendo da quell’elemento si passa poi a varie stilizzazioni, ma il motivo di fondo rimane sempre lo stesso”. Dunque l’ulivo come fonte di nutrimento e di arricchimento in questo territorio particolarmente vocato alla produzione di ottimo olio extra vergine d’oliva, per lo più dei cultivar Biancolilla e Nocellara del Belice.

Con orgoglio poi Paolo e Giuseppe, padre e figlio, ci mostrano la vecchia fornace in quel laboratorio che un tempo si chiamava “stazzuni” e che è stracolmo di fascino antico. Proseguendo nella nostra assolata passeggiata rimango basita difronte ad un bellissimo edificio il cui uso non mi risulta subito evidente: scopro poi che si tratta del Campo Santo. Il mio stupore prosegue all’interno della Chiesa dei Cappuccini, in cui ha sede il Museo delle Mummie. Non sono facilmente impressionaile, ma alcuni di quegli “sguardi” mi hanno lasciata di sasso. Ma anche quella è una tradizione burgitana, ed il lparallelo corre veloce alle famose Catacombe di Palermo.

E proprio le tradizioni rendono forte un paese che, malgrado il progressivo spopolamento, rimane molto unito ad ancorato alla propria cultura: altra pietra miliare del posto è Donna Mimidda, la pasticcera burgitana per antonomasia.

Lei, di età indefinita ed indefinibile, in paese è un’istituzione e la sua storia ha sapore d’altri tempi. Donna Mimidda infatti molti e molti anni fa preparava dolci e biscotti in casa propria: ciambelle (biscotto spugnoso simile alle savoiarde), Tetù ( che a Palermo si chiamano Ossa di Morto) e taralli. Dolci genuini, da colazione. Attratti dagli effluvi del suo forno, i burgitani di mezzo secolo fa andavano a bussare alla sua porta proponendo di acquistare i dolci fatti in casa. E, in un’epoca in cui non vi era neanche cognizione dello scontrino fiscale, Donna Mimidda acconsentiva.

Fino a che, insieme alle sue figlie, ha aperto una vera pasticceria: l’Antica Pasticceria Burgitana, sempre rigorosamente aderente alla vecchia tradizione. Il dottore Savoca mi fa assaggiare la ciambella : ha sapore di infanzia. Non riesco a fotografare l’anziana signora; era intenta al suo forno quando siamo arrivati senza annunciarci: con uno slancio di residua vanità ci dice gentilmente di non essere abbastanza in ordine per farsi fotografare e che sarà felice di posare per noi un altro giorno, quando sarà preparata, ben vestita e ben pettinata e soprattutto quando non farà quel gran caldo. Come non comprendere e rispettare la composta dignità di una signora anziana?

Riesco però a fotografare un orologio che scandisce le ore in dialetto siciliano, e che è affisso proprio in quella pasticceria: un altro dei tanti modi per rimanere legati al proprio retaggio.

 

Alessandra Verzera

La Pasta al forno alla palermitana

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La pasta al forno alla palermitana, uno dei piatti più evocativi della gastronomia siciliana, deriva dall’antico “pasticciu di sustanza”: un piatto unico in cui confluivano i resti e gli avanzi di diversi pasti, in un’epoca in cui se si aveva la fortuna che qualcosa avanzasse, sicuramente non andava gettato via. Buona sempre, ma in estate allieta le tavolate. E in Italia è “caccia agli anelli siciliani” per realizzarla

‘A pasta ‘o furnu, ma talvolta anche ‘A pasta cù furnu, è epitomio di Palermo.

Evocativa della città quanto altre “pietre miliari” cittadine come il Teatro Massimo ed i mercati storici, da decenni costituisce la portata della festa, incarnando la sintesi di qualunque scampagnata e di qualsiasi pasto fuori casa, specie in clima vacanziero.

Nei bar e chioschi di Mondello e Sferracavallo, ad esempio, non mancherà mai una mitica “vaschetta” di pasta al forno. Di quegli anelli siciliani dunque che piacciono tanto ai bambini, ma anche ai loro genitori e ai loro nonni.
L’Italia, che sempre più spesso in vacanza predilige la scoperta delle tradizioni culinarie dei luoghi in cui si reca, inizia ad apprezzare la cucina isolana, che un tempo definiva pesante e troppo ricca. Ed è così che, parallelamente ai classici delle località di mare costituiti da spaghetti ai ricci, cozze, vongole e gamberetti, negli appunti di viaggio degli italiani si leggono sempre più spesso parole come “panelle”, “pasta al forno”, “parmigiana”, “meusa” e – più raramente – “stigghiola”. Un po’ laboriosa, la pasta al forno alla palermitana è al contempo talmente generosa che anche le donne del nord si cimentano nella sua preparazione, sapendo che l’impegno profuso sarà ripagato e che quella teglia di pasta potrà essere consumata per due giorni perchè – per una ragione che ignoro – è persino più buona il giorno dopo. Ma trovare gli anelli siciliani – senza i quali la pasta al forno diviene irrimediabilmente un falso – non è impresa facilissima.

Se non esiste bottega di Palermo in cui non sia possibile trovare gli “anelletti”, nelle altre città d’ Italia possono essere reperiti soltanto in una o due catene di grossi ipermercati.
Qualche anno fa invece se si volevano preparare anelletti a Milano occorreva portarseli in valigia.
La preparazione della “tigghia di pasta cù furnu” è rituale. Io personalmente mi chiudo in cucina e mi prendo tutto il tempo che occorre, senza velocizzare alcun passaggio: il mio ragù – che di questo piatto costituisce la base fondamentale – borbotta in tegame per cinque lunghe e profumatissime ore.
Ma vediamo, passo dopo passo, la realizzazione.

Gli ingredienti sono per una teglia rotonda del diametro di 30 centimetri e più o meno otto porzioni.

750 grammi di anelletti
1 chilogrammo di carne tritata di vitello o, se piace, di vitello e maiale in parti uguali
1/2 bicchiere di vino bianco
750 ml di sugo di pomodoro
Due belle fette di formaggio Tuma o Primosale
Caciocavallo grattugiato
Due uova
300 grammi di pisellini
una noce di burro
sedano, carote e cipolla per il soffritto di base
olio d’oliva e sale, q.b.

Mettete a bollire le due uova:  dovranno divenire sode. Nel frattempo dadolate sedano, carote e cipolla e preparate il soffritto su un fondo di olio d’oliva.Quando il soffritto sfrigola senza aver ancora scurito la cipolla, sbriciolate nel tegame la carne trita usando le mani. Con un cucchiaio di legno assistite la rosolatura della carne evitando che si attacchi. Quando tutta la carne sarà rosolata e risulterà in grani sottili aggiungete mezzo bicchiere di vino bianco per sfumare, ed aggiustate di sale. Continuate a mescolare la base del vostro ragù a fiamma media. Poi aggiungete la passata di pomodoro –  riservandovi un paio di mestoli di sugo per colorare la pasta una volta cotta –  abbassate la fiamma e coprite il tegame: prendete un bel libro e mettetevi comodi. Il vostro ragù avrà bisogno di tempo, e voi avrete soltanto che da girarlo di quando in quando. Mettete via le uova a freddarsi,  privatele del guscio ed affettatele o sbriciolatele grossolanamente. Cuocete i pisellini in acqua e sale, scolateli e metteteli via: andranno aggiungi al ragù a fine cottura. Giunti dunque a fine cottura fate fondere nel vostro ragù la noce di burro – che gli conferirà ulteriore cremosità –  ed aggiungete i piselli precedentemente lessati. Il ragù ottenuto dovrà essere corposo e piuttosto asciutto. A questo punto cuocete la pasta in acqua salata per circa 7 minuti : la cottura infatti verrà ultimata in forno. Intanto cospargete il fondo della teglia di olio d’oliva ed aggiungete del pan grattato: praticamente come se doveste imburrare ed infarinare la teglia, solo che il burro sarà sostituito dall’olio e la farina dal pan grattato.
Attenzione perchè queto è un passaggio fondamentale : sarà questo procedimento infatti a conferire alla vostra pasta al forno l’aspetto di una torta e a creare la deliziosa crosticina.

Scolate dunque la pasta al dente e riversatela nel suo tegame di cottura.
Aggiungete qualche mestolo di sugo di pomodoro ed amalgamate con del caciocavallo grattugiato.
A questo punto stendete sulla teglia un primo strato di pasta ed adagiatevi sopra il ragù coi piselli, la tuma o primosale tagliato a fettine e le uova sode. Compattate questo strato premendo verso il fondo: in questo modo la pasta umida si attaccherà al pangrattato del fondo.
A piacere potrete aggiungere alla farcitura anche prosciutto cotto,salame e melanzana fritta, così come potrete ammorbidire il tutto aggiungendo della salsa bechamelle : ma sono variazioni sul tema che assecondano il gusto personale mentre la pasta al forno originale di fatto non prevede aggiunzioni.
Sistemate quindi il secondo strato di pasta a copertura e spolverizzate ancora con il pangrattato irrorando con un filo d’olio. E poi in forno, a 180 gradi, per una ventina di minuti.
Pranzo o cena che vogliate fare, ricordatevi che la vostra “torta di pasta” sarà ancor più squisita il giorno dopo quando sarà “riposata”, e che è preferibile consumarla tiepida ed in ogni caso mai troppo calda.

 

A Marsala, una “tre giorni” per festeggiare la nuova vendemmia

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Marsala dà il benvenuto alla nuova stagione del vino con la prima edizione della Festa della Vendemmia. Tre giorni di iniziative per esaltare le qualità e le potenzialità del territorio, con un coinvolgimento di coloro i quali vogliono essere protagonisti e contribuire attivamente. L’appuntamento è a Marsala dal 26 al 28 agosto: ogni pomeriggio, a partire dalle 18, protagonista assoluto sarà il vino, la vendemmia, il nettare di Bacco. (A.Fi.)

Melanzane e cucina povera: per un pasto da Re.

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Da tempo immemore in Sicilia la necessità ha sempre fatto virtù, specie in cucina. Una cucina povera che sfruttava al massimo i pochi ingredienti che la gente poteva permettersi di acquistare. Come nel caso della melanzana: una sola melanzana per preparare tre e persino quattro pietanze. Poi del formaggio rimasto, del pane raffermo e qualche pomodoro. Dagli involtini in poi, vediamo come la tradizione povera è diventata regina.

Metti una grossa melanzana e metti una madre di famiglia con pochi spiccioli nel portamonete, ma con tanta fantasia e tanta inventiva: e si ottiene una tavola da re ed un sapore unico di tradizione.

La melanzana è una di quelle viola: costano circa un euro e sono quattro le persone a tavola. Bene: si inizia dall’antipasto; alcune fette molto sottili di melanzana fritte in poco olio e poi farcite con pane raffermo ammollato nel latte, passolina e pinoli, qualche avanzo di formaggio gustoso, un po’ di salame avanzato se c’è, ma se non c’è va bene lo stesso,  qualche cucchiaiata di sugo pomodoro e via in forno con una fettina di formaggio su a fondere e a gratinare e qualche fogliolina di basilico a profumare. Squisiti.

 Poi si passa al primo, alla pasta :  questo alimento così irrinunciabile e tutto sommato economico. Ancora una volta qualche cucchiaio di pomodoro, una dadolata di melanzana fritta che finisca la cottura nel pentolino del sugo insaporendolo, ed una grattugiata di ricotta salata. Ed il primo, una superba pasta alla Norma, è servito.

I secondo è pesantuccio,ma fantastico: è la melanzana a cotoletta. Che si prepara esattamente come la cotoletta di carne e cioè passandola prima nella farina, poi nell’uovo battuto ed infine nel pangrattato. E poi via a friggere e a dorare. Un’alternativa altrettanto gustosa è la polpetta di melanzana, che si prepara facendo bollire a lungo la melanzana ridotta a cubetti per poi impastarla con uovo, formaggio grattugiato e un po’ di farina, dopo averla privata dell’acqua superfla strizzandola per bene. Si aggiungono sale e menta, si infarina e si frigge. Difficile portare in tavola qualcosa di più allettante.

 (Foto di Rosanna e Sandra da www.panperfocaccia.eu)

Cosa rimane della melanzana viola acquistata per circa un euro? Un pranzo luculliano, di gente povera, che non costerà mai più di dieci euro in tutto, ma quasi sicuramente molto meno. Di gente con pochi soldi ma con tanta fantasia e creatività, di gente che ha imparato come “accordare il pranzo con la cena”. Di gente che ha inventato la bellissima poesiola siciliana che dice così : ” S’avissi un pignateddu, l’ogghiu e ‘u sali, mi facissi anticchia di pani cottu, s’avissi lu pani”.

Alessandra Verzera

Nelle spiagge italiane si mangia gratis la pesca nettarina di Leonforte

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Gli italiani riscoprono il gusto di mangiare la frutta anche al mare. In spiaggia. Come accadeva una volta quando oltre a prendere la tintarella ci si organizzava e sotto l’ombrellone c’era anche il paniere con la frutta o con tutto quanto era stato prepararato in casa per un picnic “mordi e fuggi”. Sta infatti riscuotendo gran successo l’iniziativa “Pesche in Spiaggia”  ( A.Fi)

A Cefalù, nel blu dipinto di blu

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La corsa di Cefalù era iniziata gloriosamente e parallelamente a quella di Taormina, alcuni decenni addietro: le due cittadine, l’una in provincia di Palermo e l’altra in quella di Messina, si contendevano la palma della miglior località turistico balneare della Sicilia. Poi la corsa di Cefalù si è arrestata. E Taormina ha preso tutto: fama, glamour, turisti. Ma adesso Cefalù sta rialzando la testa.

 

La Cefalù che ricordavo, di più di una ventina di anni fa, non è molto diversa dalla Cefalù che ho rivisto e rivisitato con piacere. Bella lo è sempre stata, ma vent’anni fa era anche una località molto à la page. Richiesta dal turismo straniero e nazionale, per i palermitani era una vera fortuna averla tanto a portata di mano.

Sono scomparsi alcuni ristoranti “storici” – uno per tutti l’Osterio Magno –  ma in compenso sono comparsi i cestini portarifiuti ed una serie di servizi che prima non c’erano. Cefalù ha fermato la sua corsa alla fama a causa di scelte amministrative sbagliate e ad investimenti non realizzati. La prima e più vistosa mancanza del comune marinaro è stata per anni la cronica mancanza di strutture ricettive. Solo due hotels sulla bocca di tutti: il Costa Verde, che è a Cefalù per modo di dire, ed il Riva del Sole, che è nel cuore di Cefalù ma che è sempre stato e rimarrà sempre troppo piccolo. Il resto della ricettività era affidato a qualche alberghetto di paese e qualche affittacamere e, in tempi più recenti, alla coscienza di qualche gestore di Bed & Breakfast: e le fregature negli anni si sono davvero sprecate sempre in virtù di quella strana anomalia tipicamente sicula che induce a pensare che il turista vada sempre e comunque fregato, meglio se anche spennato vivo.

Ma da poco più di due anni le cose sono radicalmente cambiate. I pionieri della ricettività di qualità a Cefalù sono stati i coniugi Lombardo. Lei solida e verace figlia di armatore, lui esponente politico rodato con qualche carica assessorile alle spalle.  I due hanno dato vita al primo albergo di lusso proprio nel cuore di Cefalù, senza né se e né ma e senza compromessi. Il Cefalù Sea Palace è un bell’albergo quattro stelle lusso situato proprio sul lungomare Giardina ed a qualche centinaio di passi dal delizioso centro storico della cittadina.

Di certo non è economico, ma questa è stata la scelta dei proprietari, che vogliono riportare a Cefalù un certo tipo di turista e non certo il “weekendaro mordi e fuggi”. Quindi, senza l’assillo dell’auto e degli incolonnamenti, non sono tutti a poter godere di una finestra sul blu del mare di Cefalù, se quella finestra appartiene ad una camera del Sea Palace: ma chi riesce a concedersi questo piccolo lusso riporterà a casa ricordi indimenticabili tra cui alcuni dei più bei tramonti siciliani. Mi colpì, quando visitai e soggiornai al Sea Palace a meno di un mese dalla sua apertura, il fatto che su quel lungomare vi fosse una serie di casermoni in costruzione lasciati a sé stessi e che non costituivano di certo una bella cornice a quell’hotel decisamente elegante.


Sono tornata un mese fa e, colpo di scena, ho visto che uno dei casermoni  è diventato una bella struttura ricettiva, una RTA, ed ho anche appreso che l’ultimo scheletro con le gru al vento diverrà ben presto un’altra struttura di pari livello rispetto a quelle già esistenti.

Architettonicamente abbastanza simile al Sea Palace, l’ Astro Suite Hotel – quattro stelle – costituisce però una soluzione più idonea a soddisfare giovani famiglie, se non altro perché meno dispendiosa, ma non solo. Infatti tutte le camere sono delle suite composte da ampia camera matrimoniale, disimpegno, bagno e grande soggiorno con cucina attrezzata e divano letto a doppio letto estraibile.

Va da sé che per qualsiasi mamma sarà molto più facile preparare una pappina al proprio bimbo disponendo di una cucina completa persino di grande frigo e forno a microonde. La camera matrimoniale in sé gode di un bel terrazzo sul mare ed il soggiorno di un’ampia  finestratura con vista paese.  La biancheria è di buona qualità.

 Il bagno è una chicca: la sua finestra è un oblò, ed il mio guardava sia sul mare che sul paese, e così mi è capitato di fare la doccia guardando la pancia di un gabbiano che volava sull’hotel ed il campanile del meraviglioso Duomo allo stesso tempo. Ma la cosa notevole di questo posto sono proprio gli spazi. Ed i colori. Nelle intenzioni dell’architetto c’era quella di far somigliare l’hotel ad una nave: ed infatti le suites sono dislocate su due piani e su due ali, indicate con i nomi di “Ponte A” e “Ponte B”, ed i colori sono quelli evocativi del mare e del cielo: le uniche cose che si osservano di fatto dal ponte di una nave. E così i pavimenti sono blu, i divani azzurri, e blu sono le tende mentre colore sabbia sono gli arredi e le ampie e comode armadiature, mentre le porte sono di un bellissimo blu d’Antibes. C’è spazio per riporre qualsiasi cosa in quella tavolozza dei toni del blu.


Anche in questo caso ho soggiornato in una struttura aperta da meno di un mese, usufruendo di una bella camera con vista e di una colazione genuina ed abbondante. L’occhio costante ma mai invadente del gestore, ha garantito che tutto funzionasse al meglio : e devo dire che è stato tutto all’altezza delle aspettative, considerato anche un doveroso momento di rodaggio. La nota positiva più evidente è l’estrema gentilezza del personale, ben più che disponibile. Un caffè in camera ci metteva si e no tre minuti ad arrivare: e tanta solerzia non è da tutti. A seguire, la convenzione con la spiaggia attrezzata immediatamente dall’altra parte della strada, che dispone anche di un baretto dove si può consumare un ottimo  pranzo leggero, assistiti dall’affabilità di Osvaldo Mandelli, e poi – ma questo lo davo per scontato – l’estrema pulizia di tutti gli ambienti.

Una nota meno positiva riguarda la piscina: è davvero piccola ed è alta circa un metro e venti. Più adatta ai bambini che agli adulti; ed in effetti gli adulti c’erano per lo più per accudire i propri bambini. Senonchè il  mare è talmente vicino e talmente tanto bello che la piccolezza della piscina assume un’importanza molto relativa: di fatto c’è, e va benissimo se non altro per prendere ancora un po’ di sole prima di salire in camera per prepararsi a godere l’incanto della città di Cefalù alla sera, con la suggestiva passeggiata animata  dai venditori ambulanti che espongono variopinte mercanzie e tutto un susseguirsi di piccoli locali e pizzerie costantemente gremiti di gente. Un piccolo consiglio: tenetevi alla larga da quei locali in cui un insistente “tiradentro” vuole per forza trovarvi un tavolo: spenderete magari poco, ma mangerete cibo di qualità scadente.

Se potete, addentratevi un po’ di più tra i vicoletti del paese, dove un altro locale storico continua la sua esistenza continuando a servire buon cibo in una cornice spettacolare: parlo de Lo Scoglio Ubriaco, ma anche de Il Porticciolo.

Non tornerei per nessuna ragione al Ragno d’Oro, che d’oro aveva solo il conto, e che invece ricordavo come uno tra i migliori.

Per il resto Cefalù val sempre la pena di una passeggiata e, potendo, anche di un sia pur breve soggiorno.

Alessandra Verzera

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Syrah “Il Castagno”: da un piccolo sogno ad una grande realtà

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“Spero con la mia attività  di dare un piccolo contributo per far conoscere Cortona non solo in Italia ma in tutto il Mondo”. Comincia così l’intervista a Fabrizio Dionisio, illuminato produttore vinicolo cortonese, padre del pluripremiato Syrah Il Castagno (“la mia più bella creatura: un flacone di territorio”), rapito dalla bellezza della Toscana, lui che vive e lavora a Roma come avvocato (F.Pa.)