Ristorante La Lucerna – Porto Palo di Menfi (Ag)

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Il luogo è suggestivo dato che il ristorante La Lucerna si affaccia sul mare. Il periodo è festaiolo, a ridosso del ferragosto, e la gente pullula. Noi siamo in dieci ed abbiamo prenotato un tavolo chiedendo di poter portare con noi un piccolo cagnolino: richiesta accordata, si parte. Ci accomodiamo in un locale ampio ma gremito di gente e di bambini schiamazzanti che corrono per tutta la sala trascinando con sé al loro passaggio borse, giacche e quant’altro.

Pargoli mai ripresi dai genitori impegnati dal canto loro a schiamazzare a propria volta. Ma, si sa, l’estate è anche gioco, scherzo, barzellette e battute: e dunque risate, più o meno fragorose.

Il menu è abbondante:  ad un’ampia scelta di antipasti fa seguito una lunga lista di primi piatti e c’è solo l’imbarazzo della scelta. Ma c’è un limite a tutto, e persino alla scelta dei primi piatti. Giunti all’ordinazione del sesto primo piatto infatti siamo stati bloccati dalla signorina che prendeva la comanda: basta così, i primi sono già troppi ed anzi se ne dovrebbero togliere alcuni, testuali parole. Sentendomi su Scherzi a Parte guardo sbigottita e chiedo il perché, cogliendo lo stesso mio sbigottimento sui volti dei miei nove commensali. La spiegazione è ridicola : in cucina hanno solo tre cestelli, e dunque, si possono preparare soltanto tre tipi di pasta per volta. Le opzioni sono due: o scegliere un primo piatto identico per almeno tre persone, o attendere la disponibilità dei tre cestelli attendendo quindi un tempo biblico mangiando a turno. Atteso il fatto che se non si è in grado di fornire quanto scritto sul menu forse occorrerebbe limitare la lista del menu stesso, ovvero ridurre il numero dei coperti, spiego che la cosa non mi riguarda e che l’organizzazione della cucina in merito ai primi piatti non può essere  un mio problema. Quindi ordino le mie caserecce alle melanzane e pesce spada, ed altri ordinano fettucce ai gamberi, spaghetti ai ricci, cous cous, zuppa di pesce, ravioli alla cernia e busiate fresche al sugo di triglia.

L’inghippo salta fuori abbastanza presto: cous cous e zuppa sono cibi precotti, e dunque non vanno ad affollare i cestelli. Rimangono da preparare 5 primi piatti: come si farà dato che due sono  di troppo rispetto alla disponibilità di cestelli? Semplice: si prende ijn giro il cliente che aveva ordinato le caserecce servendogli invece delle busiate fresche, uguali a quelle di chi le ha ordinate al sugo di triglia. E adesso i conti finalmente tornano: spaghetti, busiate, tagliatelle. Tre cestelli, et voilà, il gioco è fatto. E’ fatto male, molto male: ed infatti le mie busiate tornano indietro dopo qualche vano tentativo di persuasione da parte della signorina di cui prima. I ravioli di cernia arriveranno, prima o poi, ma avrranno almeno il vantaggio di essere gradevoli. Molto male c’era rimasta poco prima un’altra dei miei commensali che, desiderando ordinare il risotto alla pescatora, si era sentita rispondere che il riso nel fine settimana non lo fanno perché “blocca la cucina”: di stupore in stupore, decidiamo che non è il caso di approfondire sul significato recondito di quella frase alquanto sibillina. Prendiamo per buono il fatto che il riso non c’è, e ce ne facciamo una ragione.

Tanta attesa per le mie caserecce alle melanzane e pesce spada non valeva proprio la pena: l’olio sporco in cui erano state fritte le melanzane guastava irrimediabilmente  il gusto del piatto. Sono rimaste li, quasi intonse.

Sorte simile è toccata alle flaccide busiate fresche al sugo di triglia: troppo forte, al punto da farci pensare che la pasta fosse stata cotta in acqua di mare. Un afrore decisamente pungente per un piatto oberato di peperoncino oltre ogni buon senso.

Gli spaghetti ai ricci di mare sono invece accettabili, come pure le fettucce ai gamberi che hanno però patito – anche loro – un’ingiustificata spolverata di peperoncino che ha in parte ammazzato il gusto delicato del gambero.

Poi, a questo punto, il piccolo colpo di scena: il nostro cagnolino ha un sussulto, un singulto, ed emette un flebile “bau”. Il cane non raggiunge i venti centimetri in altezza e sta in una tasca: da questo vi lascio immaginare l’entità del suo verso. Siamo stati immediatamente ripresi e diffidati dal far abbaiare il cane perché gli altri clienti potevano disturbarsi. Forse: ma sempre meno di quanto i figli dei suddetti clienti avessero già abbondantemente disturbato noi. Registriamo il rimprovero e Jack  – il piccolo cane – tace per il resto della serata: non perché gli si sia  avvolto il muso nello scotch da pacchi, quanto piuttosto perché è un cagnetto educato, a  differenza di molti dei figli dei molti clienti di questo ristorante.

In sostanza un pasto molto deludente. Scadente la qualità di piatti e pessimo il servizio, che non si potrebbe neanche elevare al rango di taverna. Ho trovato le spiegazioni interne alla cucina ineleganti e soprattutto non necessarie dato che, appunto, l’organizzazione della cucina non è fatto che possa riguardare gli avventori.

La pizza, ordinata nell’attesa delle altre portate, ha un che di consolatorio: infatti è l’unica cosa veramente buona che abbiamo messo sotto i denti insieme a dei raviolotti di ricotta dolci che hanno allietato papille estremamente deluse.

I suddetti dolci però sono facilmente reperibili in qualsiasi supermercato e sono surgelati: basta tuffarli in olio e cospargerli di zucchero a velo e la magia riesce facilmente a tutti.  Il conto di circa 25 euro a testa risponde a tante domande ma non compensa per un cattivo pasto e per un servizio  ancora peggiore fatto di divieti, spintoni ( sia pure involontari) e rimproveri di vario tipo: anche la mia obiezione sul fatto che le busiate non assomigliano neanche lontanamente alle casarecce è stato  accolto con fastidio e mi è stata usata la benevolenza di portarmi, con annoiata condiscendenza, quanto io avevo in effetti ordinato sin dall’inizio.

In poche parole questo non è un posto che mi sento di consigliare, malgrado diversi blasonati adesivi sulla porta. Per  abbindolare un cliente occorre qualcosa di più che un paio di adesivi.

Alessandra Verzera

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