Ho avuto la fortuna di conoscere il Dottor Antonio Savoca all’ospedale di Sciacca. Se fortuna si può definire essere in vacanza e finire in ospedale vittima di un atroce mal di denti. Ma se, in agosto e con il mal di denti, trovi di guardia un dentista, allora probabilmente si tratta di fortuna. Se poi quel dentista ti restituisce istantaneamente il sorriso ed è una bella persona estremamente cordiale, acquisisci una certezza: si tratta di fortuna.
Che nessuno se ne abbia a male, ma io non adoro i dentisti: mi inquieta già quell’eterno odore di etere che si portano addosso. Una fobia non risolta, probabilmente, ma estremamente comune. Ma devo ad un dentista una gran bella giornata in un paese a torto ignorato dai grandi flussi turistici: Burgio, ad una ventina di minuti da Sciacca, dove io stavo trascorrendo un breve periodo di ferie. Il tutto avviene casualmente, quando persuasa a prendermi cura della mia dentatura dopo essere stata sotto la mano di seta del dottor Savoca, gli chiedo se per caso non abbia uno studio a Palermo. Purtroppo no: lui è burgitano doc e il suo studio è a Burgio. Burgio: faccio mente locale e ricordo di conoscere da una quarantina d’anni una famiglia di Burgio. Solo per questo mi ricordo dell’esistenza di questo paese, che diversamente avrei ignorato. Così il simpatico medico si offre di farci da Cicerone, e ci accordiamo per il giorno successivo: uno dei più roventi giorni d’agosto da qualche anno a questa parte. Ci muoviamo in blocco: figli e cane compreso, e via verso quel paese.
Ma il bravo medico non ha soltanto salvato uno dei miei quarti ed il resto delle mie vacanze: ha salvato qualche anno fa qualcosa di molto più importante, e cioè uno splendido abbeveratoio ottocentesco che le ruspe dovevano radere al suolo per lasciare il posto a palazzi nuovi. In quell’occasione fu lui a pararsi davanti alle ruspe e a dire : ” dovrete portare via anche me con quelle ruspe”.Sta di fatto che sia medico che abbeveratoio sono rimasti li dov’erano, per fortuna. Ma c’è anche un Cristo in ceramica del 1763 appeso in strada a cui il medico ha portato almeno un po’ di luce con una lampadina ed un filo volante ( foto nel titolo). Ed è un miracolo che quel Cristo sia ancora li, seppure danneggiato, visto che è sprovvisto di qualsiasi protezione che possa dissuadere ladri e vandali: ” Non immagina quante volte abbia fatto presente la questione all’amministrazione comunale” – dice Savoca – ” Una teca: solo un lastrone di vetro, e il Cristo sarebbe al sicuro. Poche decine di euro. Lei crede che mi abbiano dato ascolto? A parole la teca l’hanno messa ogni volta il giorno dopo, ma nei fatti sono anni che il Cristo attende”.
Ed infatti non gli hanno dato ascolto: e quel capolavoro di majolica rimane alla mercè di chiunque.
“Il paese si sta svuotando perchè i giovani già da tempo vanno via per assoluta mancanza di prospettive” – dice il dottore. “Io stesso, ogni volta che ne ho l’occasione, tento di evadere un po’ anche se poi in fondo rimango molto legato al mio paese: ma comprendo chi se ne allontana per sempre.”
In effetti in giro c’è ben poca gente, anche per via del caldo, certo, ma soprattutto perchè a Burgio non c’è più quasi nessuno.
C’è però una nota fonderia che da cinquecento anni forgia campane, e che ha portato Burgio all’interesse della stampa nazionale e davanti alle telecamere di programmi nazionali di successo. Una tradizione unica ed un mestiere scomparso: la Fonderia Campane Virgadamo è di fatto l’unica della Sicilia ed anche una delle pochissime rimaste in Italia.Le campane che escono da quelle fornaci vanno in tutto il mondo. Una di queste campane è quella che rintocca alla Chiesa della Magione di Palermo.Ma non solo campane è Burgio, bensì anche ceramiche: anch’esse dalla secolare tradizione.
“Tutta la simbologia delle nostre ceramiche nasce dall’esaltazione di un ramo di ulivo, che è un simbolo molto forte del nostro territorio” – spiegano i ceramisti Paolo e Giuseppe Caravella.
” Partendo da quell’elemento si passa poi a varie stilizzazioni, ma il motivo di fondo rimane sempre lo stesso”. Dunque l’ulivo come fonte di nutrimento e di arricchimento in questo territorio particolarmente vocato alla produzione di ottimo olio extra vergine d’oliva, per lo più dei cultivar Biancolilla e Nocellara del Belice.
Con orgoglio poi Paolo e Giuseppe, padre e figlio, ci mostrano la vecchia fornace in quel laboratorio che un tempo si chiamava “stazzuni” e che è stracolmo di fascino antico. Proseguendo nella nostra assolata passeggiata rimango basita difronte ad un bellissimo edificio il cui uso non mi risulta subito evidente: scopro poi che si tratta del Campo Santo. Il mio stupore prosegue all’interno della Chiesa dei Cappuccini, in cui ha sede il Museo delle Mummie. Non sono facilmente impressionaile, ma alcuni di quegli “sguardi” mi hanno lasciata di sasso. Ma anche quella è una tradizione burgitana, ed il lparallelo corre veloce alle famose Catacombe di Palermo.
E proprio le tradizioni rendono forte un paese che, malgrado il progressivo spopolamento, rimane molto unito ad ancorato alla propria cultura: altra pietra miliare del posto è Donna Mimidda, la pasticcera burgitana per antonomasia.
Lei, di età indefinita ed indefinibile, in paese è un’istituzione e la sua storia ha sapore d’altri tempi. Donna Mimidda infatti molti e molti anni fa preparava dolci e biscotti in casa propria: ciambelle (biscotto spugnoso simile alle savoiarde), Tetù ( che a Palermo si chiamano Ossa di Morto) e taralli. Dolci genuini, da colazione. Attratti dagli effluvi del suo forno, i burgitani di mezzo secolo fa andavano a bussare alla sua porta proponendo di acquistare i dolci fatti in casa. E, in un’epoca in cui non vi era neanche cognizione dello scontrino fiscale, Donna Mimidda acconsentiva.
Fino a che, insieme alle sue figlie, ha aperto una vera pasticceria: l’Antica Pasticceria Burgitana, sempre rigorosamente aderente alla vecchia tradizione. Il dottore Savoca mi fa assaggiare la ciambella : ha sapore di infanzia. Non riesco a fotografare l’anziana signora; era intenta al suo forno quando siamo arrivati senza annunciarci: con uno slancio di residua vanità ci dice gentilmente di non essere abbastanza in ordine per farsi fotografare e che sarà felice di posare per noi un altro giorno, quando sarà preparata, ben vestita e ben pettinata e soprattutto quando non farà quel gran caldo. Come non comprendere e rispettare la composta dignità di una signora anziana?
Riesco però a fotografare un orologio che scandisce le ore in dialetto siciliano, e che è affisso proprio in quella pasticceria: un altro dei tanti modi per rimanere legati al proprio retaggio.
Alessandra Verzera