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Il “Capo”, un mercato storico denso d’umanità

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capoCuore pulsante di ricordi, di emozioni, il centro di una città che di storia è intrisa lungo vie e anfratti nascosti agli occhi dei passanti. Ci ritroviamo a percorrere l’arteria di un mercato che affonda radici nel substrato Palermitano fatto di “abbanniaturi” (banditori di frutta, verdura, carni e varie), di bancarelle “cunzate” (letteralmente condite, ovvero allestite), “riffaturi” (venditori di biglietti per la riffa.

Di “fimmini massari” (donne dedite alle faccende domestiche – massaie), “picciriddi ri nutricari” (bambini da crescere) e cani “lagnusi” (lagnosi, fannulloni) che oziano aspettando gli avanzi di bottega. Ci ritroviamo a percorrere una via ricca di colori, di vita, di stile che rimanda ad un passato mai tradito, mentre i passi ci spingono verso un labirinto di emozioni che partono dal Tribunale e approdano alla Cattedrale. L’ingresso al Capo è fortemente suggestivo, racchiuso da una delle porte più antiche della città, Porta Carini: edificata nel 1310 era un semplice arco di pietra che, attraverso i campi, apriva il passo dalla città verso il paese di Carini e da qui il nome. La porta fu ricostruita per intero nel 1782, fu comperata dalle monache della Concezione e utilizzata come belvedere.

Oggi è una porta in pensione, non svolge più la sua funzione e diviene la maestosa matrona che accoglie i turisti, i clienti del mercato, che fa bella mostra di se lasciandosi fotografare. Da via Porta Carini fino a via Beati Paoli è tutto un rammentare, il pensiero fa capolino sui passi scritti da Luigi Natoli in quel romanzo che tracci i tratti di una setta misteriosa di incappucciati che già alla fine del seicento, si narra in racconti divenuti leggendari, si riuniva in una grotta sita nei paraggi. Lo scopo della setta era quello di punire il male, a suon di male, nella volontà di far trionfare il bene, di demolire soprusi e ingiustizie, nel ricercar rivalsa per gli indifesi.

Il Mercato vive all’interno di un quartiere popolare, detto di Seralcadio, oggi conosciuto proprio come Capo, ed è sempre stato il mercato del popolo fin dalla sua fondazione in epoca di dominazione musulmana. Somiglia a tratti ad un souk, un bazaar orientale, sensazione più che mai vera innanzi all’Antica Drogheria di Dainotti. In cinquant’anni ne ha visti di visitatori, avventori locali e turisti, propensi a comperare le spezie più ricercate, perché la drogheria si rifornisce in tutto il Mondo.

Il nipote della proprietaria, Antonio Orlando, mostra con orgoglio Pimento, Maggiorana, Cumino, Coriandolo, Capperi e spezie varie, nulla da invidiare ai venditori egiziani, ne a quelli marocchini in quanto a fornitura. Profumi e promesse di sapori si mescolano in un gioco di allegri rituali: la merce viene “abbanniata” (urlata), soppesata, odorata e poi comprata. Intorno alla Drogheria, quarti di bue stesi, panifici, verdure esposte al sole e all’avventura e tutto narra quelle antiche forme di baratto che hanno portato alla compravendita attuale, in un contesto sempre uguale. La via avanza tra strettoie e nuove cose da mirare, tra “putie” (negozi) e “putiari” (negozianti) intenti a sistemare e mai la mente partorirebbe idea di trovare in mezzo a tutto ciò un colosso di pura magnificenza. Immersa in questo contesto colorato e grottesco, fa capolino sulla folla ondeggiante la chiesa dell’Immacolata Concezione. Un fiore che si apre alla notte, in un fiorire di stucchi e di barocco puro, bello.

Marmi policromi raccontano il gusto tutto seicentesco di una Palermo di dominazione spagnola. Verso la fine del cinquecento le suore dell’ordine delle Benedettine decisero, su spinta del gesuita Giacomo Sardo, di spostarsi dalla Cattedrale al quartiere popolare del Seralcadio fondando, negli anni successivi, il monastero. Il vano sacro era in origine molto più piccolo, le prime decorazioni si crede fossero solo pitture, oggi però si può ammirare una chiesa coperta di ornamenti, da cima a fondo. Ogni centimetro è costituito da marmi, angeli che annunciano la buona novella e puttini che danzano immoti in un tripudio d’opulenza. La navata è stata definita un “giardino di pietra” e la struttura tutta è una perla racchiusa da una conchiglia, il mercato, da salvaguardare. La chiesa della Concezione al Capo è il sacro che si mischia al profano in un gioco attento, equilibrato e senza fine. Uscire dal vano sacro e ritrovarsi per la via, abbandonare il silenzio devoto e ridare spazio al colorito frastuono, lascia smarriti per quella frazione di tempo necessaria al verduraio per attirare l’attenzione sulla sua merce.

E mentre si è intenti a scegliere tra asparagi (“sparaci” sui cartelli) e nespole, si delinea la grande umanità del Capo: una donna percorre la via, traballante su gambe magre, incerta sull’approdo. Porta in grembo una creatura e ne ha una già partorita, aggrappata al collo. Sembra stanca, affamata e regge in mano solo una moneta. Si avvicina al verduraio e chiede quanto costa una lattuga, poi lo sguardo viene attratto dalle melanzane, grosse, sembrano buone. Così si fa coraggio e apre la mano, mostra la moneta e chiede “me ne dai una?”.

Lui non barcolla, mentre la dignità vacilla, apre un sacco e inizia a riempire. Mette ortaggi e smette quella fame, allunga la spesa verso quei due euro e lei sorridendo, a denti radi e neri, dice “e il resto non me lo dai?”. Lui ritorna ai suoi clienti mentre afferma “il resto è nel sacchetto”. Se nel 2011 tocca ancora assistere a scene di fame, di miseria e di umanità ritrovata, allora vien da pensare che tutto gira, sorte e carte, ma talvolta gira male.

Tiziana Nicoletti

Editoriale. Ground Zero: giustizia è fatta?

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bandieraNon plaudo mai alla morte di qualcuno, perchè la morte è comunque morte, chiunque essa colpisca e vada a trovare: in un covo od in un letto, o sulla strada. Guardo alla morte come ad un fatto estremamente intimo: in sè reca sempre e comunque un solo concetto; che è quello della fine di una vita. Ma la nostra scelta di allontanarci oggi dalla nostra linea editoriale è un atto dovuto. Senza tripudio, ma con composta sobrietà, un atto dovuto agli americani: che quasi tremila vittime hanno contato, e che adesso scendono in piazza festanti per la morte di un solo uomo. Di quell’uomo però che quelle tremila vite le ha stritolate in un pugno, in una manciata di secondi. Il nostro Vincenzo Leone, a New York, ha sentito forte il dovere morale di trasmettere anche a noi – che ci occupiamo di cucina e di piaceri della vita – l’emozione per un momento storico che – in qualche maniera-  segnerà, ancora una volta, la storia moderna.

Sono normalmente distante dall’attitudine vagamente belligerante della politica statunitense e per questa ragione non sposo molte altre attitudini americane. Cionostante il 2 maggio del 2011 segna senza ombra di dubbio una data storica,un giro di vite. Sbaglia chi ritiene che il mondo sia finalmente al sicuro: forse, probabilmente, il mondo da ieri è un luogo ancora più pericoloso ma tant’è, la testa di Usama Bin Laden era mezzo mondo a volerla. Ma, ripeto, non amo la “celebrazione giubilante” della morte: oggi scriverei lo stesso un editoriale di tono simile ed in ogni caso commemorativo delle tremila vittime delle twin towers, anche se questo individuo fosse stato catturato e consegnato alla giustizia. E, in quest’ottica, bene ha fatto Vincenzo Leone ritraendo, tra festoni e bandiere, il ragazzo con la chitarra che – a mezza voce – canta una “Imagine” di John Lennon che è un inno alla pace. C’è una frase, in quella canzone, che dice ” nothing to kill or to die for”: “niente per cui uccidere o per cui morire”. Ecco; l’idea di un mondo migliore per me è questa. L’immagine di un mondo migliore per me è quel ragazzo con i riccioli, la sua chitarra, la sua voce che canta le parole di un grande uomo e di un grande comunicatore, ancora prima che di un grande musicista. La mia idea di mondo migliore non si identifica nella rappresentazione di un volto tumefatto e malamente sfigurato, nè in una smorfia di dolore di chi è morto senza Dio, in nessun caso. Il servizio di Vincenzo Leone è il servizio che io stessa avrei fatto, e che vi invito dunque a guardare. La pena e la mestizia che provo  per quelle tremila vittime sono ancora molto vive in me e credo lo rimarranno per sempre, insieme alla pena ed alla mestizia per le vittime indonesiane, giapponesi ed anche italiane, vittime di terremoti e di Tsunami. Vittime queste di eventi naturali, certo: si trova forse più facilmente un senso alle cose e si riesce a trovare conforto e rassegnazione dinnanzi all’ineluttabile, all’imponderabile e devastante forza e sovranità della natura. Ma i morti sono morti, come ho detto prima: e la morte di chiunque spegne una stella, offende l’anima, ferendola. Ieri per gli americani è stato un grande giorno, ma giustizia non sarà mai fatta: perchè guai a cedere al sentimento di vendetta e di rivalsa. Guai a pensare che il taglione possa darci ragione dei torti e delle perdite subìte; guai a provare gioia della morte di qualcuno; foss’anche il peggiore nemico. Quando gli americani avranno finito di festeggiare e di banchettare al ricco ed insperato desco si ritroveranno forse più di prima in compagnia del ricordo dei congiunti persi e che nessuno riporterà in vita, e probabilmente il senso di incompiutezza e di vuoto saranno incolmabili ancora una volta. Siamo indottrinati al perdono ed alla tolleranza e ci piace pensare che la giustizia non sia di questa terra, perchè siamo indottrinati ad ambire alla giustizia suprema. Forse Usama Bin Laden, un essere spregevole ed esaltato con nessun rispetto per la vita umana,  ha fatto la fine che meritava e che aveva messo in conto di poter fare prima o poi: ma questa non è certo giustizia. Questa e solo un’azione di guerra.

 

Alessandra Verzera

Presidi Slow Food Sicilia: il Mandarino Tardivo di Ciaculli

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slow foodTra le svariate decine di referenze che compongono il corposo elenco dei Presidi Siciliani Slow Food troviamo un prodotto agricolo d’eccellenza, il Mandarino Tardivo di Ciaculli; si tratta di una particolare varietà di agrume che contribuì a conferire alla città di Palermo l’appellativo di Conca d’Oro

Erano infatti sconfinati gli agrumeti che dominavano letteralmente la pianura alle porte della Città, una distesa verde e oro che copriva circa quindicimila ettari di terreno disposti in grandi terrazzamenti con i caratteristici muri a secco, un classico della campagna siciliana.

 Nella zona di Ciaculli – Croceverde Giardini la coltivazione dei mandarini si è concentrata su una particolare varietà, il cosiddetto “Tardivo di Ciaculli”; venne chiamato tardivo per via della sua maturazione protesa fino al mese di marzo. Le caratteristiche di questo frutto lo rendono davvero unico; rispetto alle altre varietà è decisamente più dolce e succoso, contiene pochissimi semi e la sua buccia è sottile e di colore brillante. Altra peculiarità del Mandarino Tardivo di Ciaculli è la sua tenace resistenza alle intemperie ed ai parassiti; questo lo ha reso un prodotto agricolo ideale per le colture biologiche, bisognoso di poche cure e generoso nella produzione di frutti.

Con l’avvento del boom edilizio degli anni sessanta però, quello che un tempo fu il polmone verde di Palermo venne rapidamente e, forse con poco criterio,  quasi del tutto soppiantato dal cemento di ville private e palazzine che hanno dato luogo a nuove borgate e quartieri. Fu così che la Conca d’Oro perse la sua proverbiale lucentezza e magnificenza, relegata forzatamente a pochi ettari di agrumeti. Fortunatamente questa storia ha avuto un inaspettato lieto fine; grazie ad un piano di recupero promosso dalla Città di Palermo e dalla UE è stata creata una vera e propria oasi, un parco agricolo per la salvaguardia di quello che rimane dei mandarineti della Conca d’Oro. E’ stato posto un freno alla speculazione edilizia con l’introduzione di nuovi vincoli ed è stata promossa l’attività agricola con incentivi e finanziamenti.

tardivoPer garantire l’efficacia di questi importanti provvedimenti venne istituito nel 1999 il Consorzio “il Tardivo di Ciaculli”; si tratta di una associazione di circa 90 produttori palermitani, tutti impegnati nel seguire una ben precisa linea di condotta che assicuri un elevata qualità, salvaguardando al tempo stesso la biodiversità e l’integrità dell’ambiente. Le attività del Consorzio hanno permesso di recuperare non poche aree agricole, stimolando i piccoli produttori ad instaurare nuovamente un legame forte con il territorio e indirizzando i loro sforzi verso un bene comune.Il crescente successo commerciale, soprattutto a livello internazionale, del Mandarino Tardivo di Ciaculli e il costante mantenimento di uno standard qualitativo di eccellenza ne hanno permesso l’inclusione tra i Presidi Siciliani di Slow Food.

Consorzio Il Tardivo di Ciaculli – Corso dei mille N° 1788 – 90121 Palermo

Impianto di produzione: Area industriale di Brancaccio N° 2, Tel. 091 6301769

Sito Web: www.tardivodiciaculli.net

Gabriele Amodeo

Il polpettone di tritato alla palermitana: cavallo di battaglia della cucina siciliana da generazioni

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La preparazione del polpettone è lunga e laboriosa, ma organizzandosi per tempo occorrerà relativamente poco ed ha il vantaggio di essere un piatto particolarmente gradito anche ai bambini, che di solito invece non amano la carne, e di conservarsi bene per il giorno dopo. Il segreto sta però nel sigillare il rotolo, per un effetto perfetto.

Intanto gli ingredienti per un polpettone di tritato alla palermitana, detto anche  “bruciuluni” in dialetto.

Per un rollò per sei porzioni ( una porzione prevede due fette) occorreranno:

700 gr di carne di manzo tritata, di secondo taglio

1 uovo

Prezzemolo q.b.

Una manciata di parmigiano grattugiato

Un bicchiere di latte

Sale e pepe q.b.

Aglio q.b. ( se piace)

Due manciate di pangrattato


 

Per la farcia:

 

Olio EVO q.b.

Salame tipo Ungherese o Milano, sei fette.

Prosciutto cotto, sei fette.

1uovo sodo tagliato a fettine sottili o sminuzzato.

Provola semi piccante, sei fette.

Procedimento:

In una ciotola mettere la carne, un uovo intero, il latte, il prezzemolo, una presa abbondante di sale, un pizzico di pepe, la punta d’aglio se piace, il parmigiano ed il pangrattato. Impastare con le mani fino a che tutti gli ingredienti si saranno amalgamati dando luogo ad un impasto consistente ma morbido, purchè non appiccicoso. Mentre portate il forno alla temperatura di 180*, bollite l’uovo fino a che sarà sodo e  lasciate riposare l’impasto. Nel frattempo disponete sul piano di lavoro due fogli di carta d’alluminio parzialmente sovrapposti, ed ungeteli con olio, cospargendo successivamente di pangrattato. Stendete l’impasto sui fogli d’alluminio e, anche aiutandovi con un mattarello, formate un grande medaglione non troppo spesso, facendo attenzione a che non si spezzi. Spennellate con olio d’oliva ed iniziate a farcire. Sull’olio spargete pangrattato: ciò conferirà morbidezza e compattezza. Poi, nell’ordine, adagiate le sei fette di salame, quelle di prosciutto, l’uovo sodo sminuzzato ed infine le fette di provola. Prendete i lembi esterni del foglio di alluminio ed iniziate ad arrotolare. Quando avrete finito di arrotolare “saldate” stringendo e modellando la carne attraverso l’alluminio. Poi chiudete a forma di “caramella” e mettete in forno. Dopo 25 minuti di cottura togliete l’alluminio e versate sul fondo della teglia un filo d’olio. Ultimate con ulteriori 10/15 minuti di cottura.

 

Questo piatto, sostanzioso e nutriente tipicamente “della domenica”, andrebbe trattato come il roast beef: dovreste dunque aspettare che si sia freddato prima di affettarlo per evitare la fuoruscita della farcia e la rottura della carne. Se non gradite consumarlo tiepido, potete ripassarlo velocemente in forno già affettato e subito prima di servirlo ben caldo.

Il contorno ideale è pisellini saltati al burro o patate al forno al rosmarino.

Tre amici, due cuoche, un fotografo :La cucina di Calycanthus

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Parola di blogger viaggia verso nuovi lidi e approda innanzi alla porta di una cucina, quella di Calycanthus, soffermandosi a mirarne i davanzali fioriti, quattro mani ai fornelli, il mirino del fotografo pronto a immortalare piatti saporiti, regioni e terre diverse per gusto e per cultura. Intervista ai protagonisti: Maite, Marie e Maurizio (Ti.Ni.)

Eccellenze siciliane: il pane nero di Castelvetrano

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Il pane fece la sua prima comparsa in Egitto, infatti furono proprio gli egiziani che scoprirono per gradi le tecniche fermentative dopo essersi accorti che la pasta fresca avanzata e lasciata casualmente per qualche tempo a contatto con l`aria si inacidiva ed aumentava di volume. Tale tecnica fu acquisita successivamente dai greci e venne trasmessa nella nostra isola quando questi la colonizzarono. In Sicilia si produce esclusivamente grano duro, quindi anche il pane veniva fatto con questo tipo di frumento. Nei paesi della Valle del Belice si coltivava oltre alla “Russulidda” (tipico grano duro maggiormente in uso in tutta la Sicilia) la “Tumminia”.

Quest`ultimo era di piccole dimensioni, più scuro e con una bassa resa; il pane di “Tumminia” era di colore scuro ma era più gustoso e si manteneva morbido per parecchi giorni, per questo motivo le massaie preferivano panificare con questa farina durante il periodo estivo (le elevate temperature favoriscono infatti l`indurimento precoce del pane). Oggi questa varietà di frumento è stata soppiantata da altre con più alta resa. La panificazione con la farina di “Tumminia” è in disuso ma viene effettuata ancora con i metodi tradizionali grazie all`abilità di poche persone anziane e si può trovare ancora nei paesi della Valle del Belice ed in particolare a Castelvetrano. La pezzatura del pane variava rispetto ai nostri giorni: si dava il nome di “pani” se aveva la forma circolare e pesava circa 2 chili, “vastedda” sempre di forma circolare ma con pezzatura di 1 chilo, seguivano poi le “cuddure” (pane della pezzatura di mezzo chilo) e le “cudduredde” (di circa 150 – 200 grammi). Se la farina era ricavata da frumento nuovo si confezionavano le “cuddure” a “pedi di voi” (simili al piede di un bue), forse per devozione, ma probabilmente come segno di riconoscenza verso quell`animale che aiutava a solcare la terra.

La denominazione “Pane nero di Castelvetrano” è propria del pane ottenuto mediante l’antico sistema di lavorazione (con lievito madre, lu criscenti) e dall’impiego di una miscela di due semole: quella ottenuta da grano biondo siciliano integrale e quella ricavata da un’antica varietà di frumento locale, la tumminìa. Quest’ultima è una varietà di grano duro a ciclo breve (detta anche grano marzuolo) anticamente seminata come ringrano o quando le annate piovose non consentivano la semina autunnale. Pare che la tumminìa fosse coltivata, con il nome di trimeniaios, già dai coloni greci insediatisi nella vicina città di Selinunte. Il pane fatto con la tumminìa si mantiene gustoso e morbido per diversi giorni. Questo particolare ingrediente, di scarsa reperibilità, conferisce al prodotto finito un caratteristico sapore dolce. La cottura secondo il metodo antico avviene esclusivamente in forni di pietra riscaldati con legna d’ulivo (solitamente immagazzinata ed essiccata direttamente dal fornaio, che la recuperava dalle fronde eliminate durante la potatura). Se ne ottiene una pagnotta rotonda di media pezzatura, che in siciliano si chiama vastedda, in grado di mantenersi per 7-10 giorni. La forma tondeggiante e bassa è considerata, sin dall’antichità, funzionale per poter essere spezzata a mano, e sembra essersi così tramandata nei secoli. Un’altra forma, caratteristica di quasi tutte le zone rurali dell’isola, è quella che ricorda lo zoccolo di bovino, o “a piede di bue”, chiamata cuddura: veniva in passato confezionata una volta l’anno con il primo frumento dell’ultimo raccolto, con funzione di rito di ringraziamento e propiziazione, come ogni altra forma di offerta delle primizie.

 

La pezzatura è anch’essa una reminiscenza antica, in quanto le massaie preparavano il pane una volta alla settimana il sabato o il lunedì.

Il Pane Nero di Castelvetrano può essere richiesto a Sebastiano, che è contattabile al cell.327.4474115

I Maltagliati con fagioli

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Ferriero Corbucci (scomparso qualche anno fa) è stato uno dei Partigiani simbolo della Resistenza della nostra Provincia. Nel suo libro:I Maltagliati (Ed. Arti Grafiche Della Torre, 2008), racconta della sua evasione(1944) dalla caserma Paolini di Fano per raggiungere le colline di Schieti, dove dopo alcuni giorni di fuga dai nazi-fascisti e nascondigli tra rovi e bosco, fu trovato, ormai stremato dalla stanchezza e dalla fame, da un contadino del luogo, che lo raccolse semi-svenuto e lo portò con sè a casa sua.

Quel gourmand di Giuseppe Mazzini

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Rintoccati i 150 anni, tornano di moda i menu risorgimentali. A Genova è toccato al dessert: la torta Mazziniana. Veloce, bastano 40 minuti. Dietetica, senza creme o panna, ma con mandorle raffinate.Il contagio patriottico non conosce limiti, bar e ristoranti dei carrugi rispolverano una torta dal sapore antico, perché qui il 22 giugno 1805 nacque Pippo, chiamato affettuosamente così dalle tre sorelle, prima di preferire il nomignolo di padre della patria. (Gi.Co)

E c’è un produttore di vini italiani alle nozze reali: è il marchese Vittorio Frescobaldi

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frescobaldiSoltanto tre italiani alle nozze del secolo tra l’erede al trono  d’Inghilterra William e la fidanzata Kate Middleton: l’ambasciatore d’Italia a Londra, Giorgio Economides,  il marchese Vittorio Frescobaldi (foto) e il conte Paolo Filo della Torre. Probabile, ma non confermata, la presenza dello stilista italiano “par excellence”, Valentino.

E’ un bene che a rappresentare l’Italia in un’occasione mondana ( ma non solo) sia un personaggio come il Marchese de’ Frescobaldi. E’ un bene che l’Italia viaggi per il mondo adorna delle sue vesti migliori, di cui quella che rappresenta il legame con la terra e con le ottime produzioni vitivinivole è senz’altro una delle più prestigiose. E’ un bene inestimabile che rimangano a casa starlet, attricette, attorini e politici di vario lignaggio e colore. E’ senz’altro un bene, ma è principalmente una scelta di gusto, lasciare a casa ex teste coronate ormai dedite per lo più al gossip ed alla tv. E’ un bene poter parlare della famiglia Frescobaldi. La storia del casato del Marchese de’ Frescobaldi è legata al vino da settecento anni nel corso dei quali ben 30 generazioni hanno dedicato la loro esistenza alla produzione di vini toscani di alto pregio. La produzione dei Marchesi de’ Frescobaldi gode di ottima salute con i suoi 5000 ettari di estensione e 1000 di vigneti, e con un’esportazione che copre ben 65 paesi in tutto il mondo.

 Vini di classe, frutto di un equilibrato blend tra tradizione ed innovazione, in cui gli investimenti nella comunicazione e nelle risorse umane hanno creato non soltanto un marchio e delle etichette note in tutte il mondo, ma anche – e forse soprattutto – hanno perpetrato un’imperitura tradizione italiana; di quell’Italia buona e per certi versi “antica” che produce rimanendo al passo con i tempi, ma non troppo. Frescobaldi è sinonimo di Toscana e di vini Toscani, che già di per sé stessi hanno una fortissima tradizione ed un notevole prestigio: l’obiettivo di Frescobaldi è quello di essere il più prestigioso dei produttori toscani di vini, puntando sul rispetto del territorio, sull’eccellenza dei vitigni e sulle professionalità impiegate. Le produzioni dei vini Frescobaldi spaziano dal Chianti al Pomino DOC, da Montalcino alla Maremma e dal Mugello fino alla provincia di Livorno E’ in queste zone altamente vocate che nascono i vini DOC rossi e bianchi. Alcune tra le etichette, Castelgiocondo Riserva Brunello di Montalcino DOCG  e l’ Ammiraglia IGT ottenuto da uve Syrah in purezza e, per i bianchi, il Costa di Nugola Vermentino.

Chissà quali vini verranno serviti agli ospiti nel corso del desco nuziale: magari proprio le etichette sin qui citate? Decisamente no, dato che ben poco hanno di britannico. Ed allora chissà cosa penserà il Marchese Frescobaldi sorseggiando vini decisamente lontani anni luce dalle fragranze e dai bouquets toscani…

 

Alessandra Verzera

Menù in “British style” per il matrimonio del secolo tra William e Kate

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torta-nuziale02Ormai mancano pochi giorni al matrimonio del secolo: il principe William di Windsor erede al trono d’Inghilterra e la sua fidanzata storica, Kate Middleton infatti convoleranno a nozze il prossimo 29 aprile a Londra. In una ridda di ipotesi e di scommesse – i bookmakers inglesi non hanno tempo neppure per grattarsi la testa – questa nuova coppia darà ai britannici la possibilità, ancora una volta, di leccarsi i baffi; ed in più di un senso.

Kate è tutt’altro che la dolce verginea principessina, epitomio di tante fiabe: distante anni luce dalla ancor compianta suocera Lady Diana Spencer.

 Eterea, timida e poco più che ragazzina quando, oberata da metri e metri di sete e trine, sposò il principe Carlo. La Middleton è invece una giovane donna piuttosto à la page. Sembra sapere esattamente ciò che vuole: incluso un vestitino da poche sterline indossato il giorno dell’annuncio ufficiale del fidanzamento. Un atteggiamento decisamente “understated” teso a conquistare il cuore ancora parecchio infranto degli inglesi, specie in un periodo di vacche magre in cui ogni sterlina conta ed in cui – sebbene siano già trascorsi tredici anni – ancora sospirano e singhiozzano ipotizzando che stupenda regina sarebbe stata Diana. Ed ecco, tra l’altro, che al “commoner” padre della giovane sposa è stato chiesto un esborso non indifferente: una cospicua e congrua partecipazione alle spese per le nozze. Un centinaio di migliaia di sterline, carta e penna e conti alla mano: anche i sogni costano, e costa anche il poter diventare principessa. Una principessa furba che ha scelto un abito da sposa confezionato da un’illustre sconociuta.

william Una tale Sophie Cranston, designer per Libelula e creatrice dello stesso marchio nel 2002: una firm che a noi non dice assolutamente nulla. Molto di più ci dice Calvin Klein, che pare vestirà intimamente la sposa. Peccato che nessuno, o quasi nessuno, potrà vederlo. Qualche notizia è trapelata anche sul menù della cerimonia, grazie allo chef di Buckingham Palace Mark Flanagan che ha dato notizia sulle scelte fatte dagli sposi in merito al cibo presente al banchetto. Saranno tutti piatti della tradizione britannica, ha spiegato Flanagan, piatti come la bistecca di filetto al whisky, l’agnello in salsa alla menta, il pesce affumicato e il pudding di banana. Anche la torta sembra aver lasciato di stucco i curiosi e sopratutto i pasticceri della vecchia Inghilterra che già facevano a gara per confezionare la torta più originale del secolo. La scelta invece, ancora una volta tra le più classiche, è andata su una torta alla frutta a più piani, che sarà decorata con i quattro fiori simbolo dei quattro paesi che compongono il Regno Unito di Gran Bretagna (Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del Nord) e qualche altro fiore decorativo a sorpresa. Dunque se queste indiscrezioni dovessero rivelarsi veritiere, i 650 invitati sapranno già cosa aspettarsi dal pranzo nuziale, definito dallo stesso Chef Flanagan “so British” nei sapori e negli accostamenti, ma scritto come tradizione richiede, rigorosamente in lingua francese. Ed allora, tra un gossip e l’altro e tra una scommessa e l’altra, tra invitati storici e “silurati” DOC non ci rimane che aspettare il fatidico giorno e verificare personalmente.

Noi intanto  però vi ammanniamo la ricetta di uno dei piatti del Menu reale: il filetto al Whisky.

Per 4 persone ( per 400 improbabili invitati vi basterà moltiplicare il tutto per 10):

4 fette di filetto di manzo,

4 cucchiai di bourbon Whisky,

il succo di ½ limone,

60 gr di burro,

½ bicchiere di brodo,

1 cucchiaino di salsa Worcester

Sale e pepe q.b.

Rosolare fino a doratura il burro ed adagiarvi le fette di carne, aumentando la fiamma fino a che la carne si sia colorita. Spruzzare quindi le fette con il whisky, flambarlo ed attendere che la fiamma si estingua da sola. Aggiungere quindi la salsa Worcester ed il succo di limone mescolando con il liquido di cottura. Unire poi ½ bicchiere di brodo aggiustando di sale e pepe e lasciar cuocere ancora per pochi minuti.

Dinner is served!

Giorgia Cavera