Finger food: una vecchia storia

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Il cibo fa moda, crea tendenze eppure il finger food è storia vecchia, vecchia come il mondo e questa terra: elegante signora che rammenta il passato, che vive il presente e assaporerà il domani. Oggi? Si apparecchiano tavole più ricche d’arnesi che di cibi (Ti.Ni)

E mentre la pentola bolle, mettere a tavola diventa un momento, il rituale di gesti a consacrare la sacralità dell’evento. Mangiare è ben più che nutrirsi, è uno stile di vita, tendenza, è la manifesta scelta di ciò che si è o di quello a cui si tende. Tutto è globale, mischiamo termini e gusti, inglesismi per affrontare la festa e il party mostra dettami come stilista che va in passerella. Il piatto è scarno, minimalista, l’eleganza sembra essere quell’alone che avvolge i presenti, in parole, bicchiere alla mano e gustare tartine, mouse, creme e pezzetti di mare o di terra. Se non è finger food il party sembra collassare come un soufflé mal curato. E spesso si pecca in riflessione: non è una nostra invenzione. Finger food è un letterale rimando alle dita, il cibo che si gusta senza l’ausilio delle posate e sembra quasi di tornare indietro e ripercorrendo la via si fissano nuovi orizzonti.

Gli antichi mangiavan di mani. Le suppellettili, le posate, non hanno lunga storia, hanno invece una breve carriera e un continuo mutare. In molte zone di nostra madre terra, esistono ancor oggi pratiche conviviali diverse dalle nostre: si mangia per terra, seduti su stuoie e talvolta si usano ciotole e molto meno spesso rebbi di forchetta. Per millenni noi uomini ci siamo nutriti servendoci unicamente delle mani, utilizzando ciotole di terracotta, i primi cucchiai rudimentali in legno, l’ingegno volto ad affilare lame per coltelli.

La forchetta è moderna trovata. Le prime forme di galateo rivolte alla tavola si cominciano a delineare con la nascita dei primi centri urbani e le prime forme di vita stanziale. Gli antichi romani mangiavano servendosi delle mani senza formalizzarsi nel leccarsi le dita e procedendo a lavaggi di queste, intingendo falangi in recipienti contenenti acque profumate alle essenze. Coricati sul gomito sinistro, nell’accoglienza del triclinio che oggi diviene sala da pranzo con tavolo e sedie, con la destra s’apprestavano a scrivere storia d’eventi e di cibo. Finger food, una vecchia storia di ritorni e partenze. I cucchiai furono i primi a mostrarsi in utilità. Ricordano ancora oggi la forma oviforme di una conchiglia o della nostra mano semichiusa, atta a contenere l’acqua che sgorga da una fontana quando ci apprestiamo a bere o a detergerci il viso. I primi furono costruiti in legno e nel Medioevo ne compaiono in argento e altri materiali. Grandi nella forma sembrano scodelle con il manico, da cui bere cibi liquidi.

Tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600 il cucchiaio si afferma, riconferma utilità e si veste di mille forme, da quello piccolo per il thé a quello più grande da minestra. Facile comprendere come il fratello coltello abbia invece seguito un percorso diverso. Mentre il cucchiaio fa moda e tendenza e si veste di pietre preziose, nella storia il coltello segue le evoluzioni della metallurgia affinandosi, in questa forma a noi conosciuta, con l’età del bronzo. E dal Medioevo al Rinascimento sembra essere il precursore di cugina forchetta in quanto lo si usa per tagliare e per infilzare cibi solidi da portare alla bocca. Ebbene, la forchetta arriva per sostituire la più antica posata: le dita. Nel Medioevo è considerato scandaloso oltraggiare la convivialità dell’evento, usando arnesi diversi dalle dita per toccare il cibo; nel Rinascimento invece la tendenza si inverte e barbaro, cannibale, viene definito colui che osa imbrattarsi le mani per riempirsi la pancia. Mode, tendenze, regole e stili di vita. Si cambia opinione, ci si adatta e il gusto modifica espressione di passo in passo lungo il banchetto della vita. In un tempo ormai passato la forchetta era trasgressione, oggi è cult, domani sarà recessione?

La società, il costume di questa, è una bandiera esposta al vento del cambiamento, ma spesso cambiare non è inventare bensì riscoprire. Torniamo a mangiare con le mani, a vivere il cibo, a toccarne consistenza, ad assaporarne profumo, a stuzzicare più sensi – tra vista, tatto, olfatto e gusto – prima di contar calorie. Siamo very cool, alla moda e ci aggiriamo per party in festaiolo atteggiamento, sorseggiando un drink, assaporando con mani un cibo che appartiene, nel suo intimo raccontare, al passato: questa sì che è globalizzazione! Eppure vi chiedo, se l’occhio è appagato a discapito di uno lo stomaco vagamente accontentato e di una postura affaticata, il finger food è davvero nostro alleato? Ed ancora, noi tanto avvezzi ad utilizzar francesismi e inglesismi, troveremo mai in questi meravigliosi paesi dei sani italianismi per raccontare noi? Il nostro cibo da strada, che in pizza, pani ca’ meusa, e spaghetti al pomodoro lascia contenti Pulcinella, Pantalone, Baldanzone, Brighella, Arlecchino e Colombina, non ha necessità di nomi strani e convenzione. E buon ritorno a maschera e tradizione.

Tiziana Nicoletti