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Nina Siciliana: virtuosa, colta e singolare amante della cucina povera

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nina_siciliana_homeGiacomo da Lentini, ma anche Dante da Majano, la considerano da sempre la “poetessa”. Bellissima, virtuosa, colta e singolare. Nina Siciliana è una donzella ammirata e stimata da tanti rimatori della Scuola Poetica Siciliana. Secondo lo stesso Stupor Mundi è senza dubbio la prima poetessa della lingua volgare. L’appuntamento, grazie a Giacomino Pugliese, è nei pressi della Cuba. Fa sapere di non gradire il ritardo. E noi puntuali siamo stati.

 

Fiasconaro. Monna Nina, buongiorno. Il suo Dante le ha parlato di Scelte di Gusto? Quindi posso avere l’onore d’intervistarla?

Monna Nina. “Si Dante mi ha già informata. Sono ben lieta di ascoltarla. Certo io ho più dimistichezza con i versi e le rime e di cucina “mastico” poco. Tuttavia ci proviamo”.

Fiasconaro. Prima di parlare di cucina, vorrei che lei si presentasse ai nostri lettori. Si sa poco della sua vita. Troppo alone di mistero. Sia sincera. Lei dov’è nata?

Monna Nina. “Voi giornalisti siete troppo curiosi. Noi poeti ci teniamo alla riservatezza. Però qualcosa posso dirla. Qualcuno ha sparso la voce che io sia nata a Ragusa, un altro si è inventato che io sia venuta al mondo a Messina, e c’è chi ha detto che abbia origini palermitane. A lei voglio fare una confidenza: io sono nata ovunque voi vogliate. Quindi…”.

Fiasconaro. Ne so quanto prima. Ma lei dolce donzella vuol prendersi gioco di me?

Monna Nina. “Non voglio prendermi gioco né lei nè di nessun altro. Vorrei che tutti un giorno possano ricordarsi di me attraverso le rime, le poesie. Io vivo per i versi”.

Fiasconaro. Allora parliamo di cucina. Cosa mangia di solito? Preferisce la carne o il pesce?

Monna Nina. “Non sono di buona forchetta. Trascorro le mie giornate scrivendo versi, quindi tralascio la cucina. Ci pensa mia madre a prepararmi qualcosa da mettere tra i denti. Mi piacciono le verdure, i formaggi, soprattutto il pecorino. Non disdegno nemmeno la ricotta. La carne mangio quando posso quella selvatica. Conigli, lepri, cinghiale. Il pesce? Qualche volta qualcuno mi fa avere anguille che mangio sempre alla brace. Sono una delizia”.

Fiasconaro. Bene, una cucina povera. Fatta di piatti essenziali…

Monna Nina. “Che vuole… Io mangio quando pare. Come le ho detto prima, le mie ore del giorno vengono scandite dalle rime, dai versi. Il cibo per me non è importante. Si mangia per sopravvivere…”.

Fiasconaro. Mangia dolci? Cosa preferisce?

Monna Nina. “Dolci? Ma no… Qualche volta mangio qualche crema fatta con i petali di rosa e la cannella…”.

Fiasconaro. Quando abbiamo incontrato lo Stupor Mundi ci ha confidato che va ghiotto per la qubbayt. Lei la mangia?

Monna Nina. “Non sono molto ghiotta di dolci. Certo il torrone saraceno è davvero speciale. Ha ragione l’imperatore Federico. Gli arabi lo preparano con essenze particolari che esaltano il palato. Chi non ha mai mangiato la qubbayt…”.

Fiasconaro. Ci tolga una curiosità: fra lei e Dante da Majano c’è del tenero? Complicità? Lo sa che cucina e sesso si completano?

Monna Nina. “Lei è davvero curioso. Si faccia gli affari suoi. Lei è antipatico. Vorrebbe che le dicessi che fra me e Dante c’è qualcosa di serio. Vero? Lo scopra attraverso questo sonetto che mia ha scritto qualche tempo fa: La lode e ‘l pregio e ‘l senno e la valenza ch’aggio sovente audito nominare, gentil mia donna, di vostra plagenza m’han fatto coralmente ennamorare, e miso tutto in vostra conoscenza di guisa tal, che già considerare non degno mai che far vostra voglienza: sì m’ha distretto Amor di voi amare. Di tanto prego vostra segnoria: in loco di mercede e di pietanza piacciavi sol ch’eo vostro servo sia; poi mi terraggio, dolze donna mia, fermo d’aver compita la speranza di ciò che lo meo core ama e disia“.

Fiasconaro. Dunque, non ci sono dubbi è una sorta di dichiarazione d’amore. E lei cosa ha risposto?

 

Monna Nina. “Insomma, lei vuole sapere troppo. Non c’è stata alcuna relazione carnale, voleva sapere questo? Io ho risposto in questi termini: Qual sete voi, si cara proferenza, che fatre a me senza voi mostrare? Molto m’agenzeria vostra parvenza, perchè meo cor podesse dichiarare. Vostro mandato aggrada a mia intenza; in gioja mi conteria d’udir nomare lo vostro nome, che fa proferenza d’essere sottoposto a me innorare. Lo core meo pensare non savria nessuna cosa, che sturbasse amanza, così affermo, e voglio ognor che sia, d’udendovi parlar è voglia mia: se vostra penna ha bona consonanza col vostro core, on’ha tra lor resia?“.

Fiasconaro. Abbiamo pure saputo che lei non va d’accordo con Gaia, la figlia di Gherardo da Camino?

Monna Nina. “L’avevo detto a Giacomino Pugliese che questo incontro con lei non mi piaceva. Non dovevamo parlare di cucina?

Fiasconaro. Chiedo venia. E’ colpa mia. Mi sono lasciato andare. Ma è pur vero che mentre Gaia è menzionata dal Sommo Dante, lei è una illustre sconosciuta…

Monna Nina. “Lei è una vera facciatosta… ma allo stesso tempo mi è simpatico perchè non è facile parlare oggi con i cronisti. Di Gaia non me ne importa nulla. Sono convinta che poi i posteri un giorno potranno verificare”.

Fiasconaro. Prima di lasciarci, vuol dedicare qualcosa di suo ai lettori di Scelte di Gusto?

Monna Nina. “Non posso regalare una ricetta culinaria. D’altronde come le ho detto il cibo per me non ha importanza. Però qualcosa di fondamentale per l’animo posso donarlo. Leggete pure e conservate gelosamente:Tapina me che amava uno sparviero, amaval tanto ch’io me ne moria; a lo richiamo ben m’era maniero, ed unque troppo pascer nol dovia. Or è montato e salito sì altero, assai più altero che far non solia; ed è assiso dentro a un verziero, e un’altra donna l’averà in balìa. Isparvier mio, ch’io t’avea nodrito; sonaglio d’oro ti facea portare, perchè nell’uccellar fossi più ardito. Or sei salito siccome lo mare, ed hai rotto li geti e sei fuggito, quando eri fermo nel tuo uccellare“.

Antonio Fiasconaro

 

O murzill’ sapurito: Pane e puparulilli

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I Friggitelli, o Puparulilli, altro non sono che dei mini peperoni verdi appartenenti al genere Capsicum che a sua volta comprende, tra peperoni e peperoncini, 5 diverse specie. Capsicum annuum, friggitelli, puparulilli, chiamateli come volete perché in fin dei conti il nome non racconta a dovere il sapore. Semplici, genuini, affascinanti peperoni nani che – fritti in padella con tanto di aglio, olio, peperoncino e per ultimo pomodorini pachino – attingono alla tradizione napoletana per affermarsi con gusto nella memoria di partenopei e visitatori (Ti.Ni)

Prosegue “Un’Italia; 150 piatti, 150 territori,” promossa da SapereSapori e CittàdelVino

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Ristoranti, Agriturismi, Chef, Pro Loco, Strade del Vino e Comunità Montane hanno risposto con entusiasmo all’invito indicandoci i piatti a loro giudizio più rappresentativi della tradizione locale. Le segnalazioni arrivano da quasi tutte le regioni italiane, con Lazio e Lombardia in testa per numero di ricette, seguite da vicino da Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Sicilia e Veneto. Dai ravioli con funghi e selvaggina della Valle d’Aosta allo Stocco di Mammola calabrese, dalla Sa Suppa Thìniscolesa del nuorese al Brodetto Romagnolo, il puzzle delle eccellenze gastronomiche del nostro Paese si arricchisce ogni giorno di proposte che ci ricordano “saperi e sapori” meritevoli di essere valorizzati e tramandati alle giovani generazioni anche per il loro valore storico e culturale. Abbiamo, quindi, deciso di prolungare a fine giugno i termini della raccolta, prima di procedere nella scelta dei 150 piatti a cui andranno abbinati i 150 vini più adatti che racconteranno i 150 territori. Un caloroso invito allora ai territori e ai loro protagonisti in cucina a partecipare all’iniziativa registrandosi  su SapereSapori o inviando una mail.

Il Ricettario per celiaci, intervista a Cappera e Felix

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Parola di blogger oggi pulsa per un cuore di farina senza glutine, una guida utile a quanti necessariamente vivono il cibo gluten free, una mappa degli ingredienti concessi, delle ricette che conducono in se il gusto dimenticato dei prodotti da forno alti e soffici. Gli intolleranti al glutine trovano in Emanuela Ghinazzi e Olga Francesca Scalisi, in arte Cappera e Felix, un’ alternativa al malinconico cibo confezionato. Intervista alle autrici de “Il Ricettario per celiaci” (Ti.Ni.)

Mina Vanoni: quando si canta per…mangiare.

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vanoniLa Mina e la Vanoni. Diverse in tutto, come Bartali e Coppi. Cinquant’anni opposti come il sole e la luna. Pop la prima e chic la seconda. La tigre di Cremona e la milanese snob, studentessa delle Orsoline. Entrambe regine di cuori, però: una bella gara!Tifo estremo in quegli anni: o ami l’una o ami l’altra. Cambiano le età e alla fine le due antagoniste finiscono per somigliarsi.  Non si fanno più vedere, ma cantano. Cantano per la pubblicità. Cantano per mangiare.

 

    

Mina_2Mina, sparita dai palchi da più di 30 anni, superati i 70, ora s’accalora con una voce impastata sulle “farfalle al sugo, pomodori datterini Barilla, la gioia di stare insieme”, mentre lo spot vola via “nel blu dipinto di blu” di Modugno e si conclude in un blu dipinto di blu dal grafico e nel rosso del logo Barilla.
In verità, Mina ha sempre cantato per la pasta, fin da anni lontani. “Barilla, capolavoro di pasta” – era il 1967, interpreta “Ta-ra-ta-ta”, in un vero capolavoro di Carosello, che fa ancora incantare, nonostante la b come Barilla. Erano altri tempi: duettava in tv con personaggi del calibro di Totò, Sordi, Walter Chiari. Un centinaio di milioni di dischi fa.

Chiarissima regina anche la Ornella, milanese come nessun altro personaggio della canzone. Milanese in tutto, anche per i denari.
E’ già on air il primo soggetto della campagna tv Vallelata Galbani. Colonna sonora “Senza fine”, voce interprete di Ornella Vanoni.
Si vede la forchetta agguantare la mozzarella. Così lentamente che non sfugge nessun dettaglio. Un attimo senza fine, per mettere in scena – lentissimamente – il più piccolo dettaglio di quel magico momento del consumo, che più consumo non si può.  
Galbani vuol dire fiducia. E Vallelata? Un prodotto è tanto più buono quanto più tempo ci vuole per assaporarlo e se poi si affida questo viaggio nel gusto a Ornella Vanoni…. Evvai!! Ornella, mostro sacro dell’immaginario femminile degli ultimi decenni. Donna diafana, maledetta, ribelle, anticonvenzionale, trasgressiva, piena di amanti. E’ stata amata da Strehler e da Paoli, interprete delle canzoni della mala e voce più sensuale per quelle celebri parole di “Senza fine”, scritte per lei da Paoli. Ha cantato sempre per ciascuno di noi. L’abbiamo amata anche noi, quasi sessualmente, certamente con una fedeltà che è durata mezzo secolo. Forse non possiamo sopportare il suo viale del tramonto? No, anzi, c’intenerisce e ci strugge il cuore il suo botulino pervicace. Non possiamo semplicemente sopportare che ora canti per una mozzarella.

Giorgio Contino

 

Primo piano:batterio killer, tra cetrioli e germogli cresce il panico

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ortaggiIl batterio killer, una mutazione genetica dell’Escherichia coli – batterio presente nel tratto terminale dell’intestino di tutti i mammiferi a sangue caldo, uomo incluso,  utilizzato per tale ragione come indicatore di contaminazione fecale – in questi giorni continua a far parlare di se. Abita l’intestino e aiuta i processi digestivi umani, eppure possiede una doppia faccia, una medaglia che presenta anche un lato negativo: può provocare malattie sia all’uomo che agli animali.

Così appare chiaro solo che di mutazione genetica si tratti, ma nessuna fonte riesce ad oggi a confortare i consumatori, ad aiutare i produttori, a rasserenare ogni ambiente che satelliti tra le campagne, i banchi di ortofrutta e le corsie d’ospedale. Come si sia generato è oscuro, altrettanto pare la natura del suo sviluppo in ceppo batterico pericoloso. Certo è che già molti cetrioli sono stati sacrificati sull’altare del panico collettivo, ora tocca ai germogli di soia, domani di cosa sarà il turno? Davvero con le moderne tecnologie l’uomo riesce a calpestare il suolo lunare, ma non riesce ancora a comprendere dove fallisca il suo operato e come una mala azione degeneri con conseguenze catastrofiche per la salute?

Alcuni ceppi di E.coli (questo l’abbreviativo comunemente usato per identificare il batterio) sono portatori di malattie come meningite, polmonite, setticemie, altri sprigionano tossine in grado di indurre i soggetti esposti a dissenteria. Non bisogna essere biologi o patogeni, non è necessario nemmeno essere scienziati per comprendere che l’irrigazione di campi coltivati con acque contaminate da fecalizzazione è dannoso, grave per la salute pubblica di quanti poi si troveranno ad ingerire gli alimenti raccolti da quelle stesse terre.

Da più parti giungono rassicurazioni e indicazioni atte a prevenire il contagio: lavarsi le mani dopo l’utilizzo della toilette, lavare bene le verdure e laddove possibile cuocerle, non maneggiare carni crude o farlo con cautela e massima igiene sul piano di lavoro, non usare lo stesso tagliere per affettare più alimenti. Tutte prassi che sembrano appartenere all’ovvietà. Ma allora come si è contratto il batterio che ha causato ben 23 morti in Europa? È davvero possibile assistere nel ventunesimo secolo ad una tale mala organizzazione dei Governi in fatto di Sanità?

No, certamente non è corretto vedere andare in fumo i raccolti, i denari utili per tirare avanti, mettere in crisi i produttori locali e i lavoratori che operano nel settore, veder distruggere cibi possibilmente contaminati e forse invece “buoni”, quando il flusso delle informazioni sembra procedere a spizzichi e bocconi. Se una informazione non è confermata, così come tiene a precisare il Commissario europeo per la salute John Dalli, sulla possibile contaminazione provocata dai germogli di soia, allora si farebbe bene a non diffonderla, a non creare falsi allarmismi che hanno il solo scopo di mettere in ginocchio un’economia già parecchio vessata.

Ogni divieto sul consumo di prodotti ortofrutticoli è stato sciolto, l’epidemia si dice circoscritta, l’onda d’urto arginata. Eppure noi oggi davanti al banco dell’ortolano brancoliamo nel buio delle scelte: vivere come se nulla fosse pur mantenendo alta la cura per l’igiene e l’informazione sulla provenienza del cibo, o smettere di mangiare ciò che ci fa paura? E la marea torna, emozionale sul cibo, la stessa che ha prodotto mucche pazze e polli stralunati. Le imprese ortofrutticole nazionali sbandano, sembrano tracollare sotto il peso di quelle responsabilità che nessuno è pronto ad assumersi mentre 100 milioni di euro vanno in fumo come fossero carta straccia: questo l’impatto economico che il nostro Paese ha già accusato.

 

Tiziana Nicoletti

Vecchi sapori tornano: la gazzosa Lurisia

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lurisiaE’ incredibile come il cervello umano riesca a scovare collegamenti temporali sepolti sotto decenni di ricordi e di esperienze di vita vissuta; a volte è sufficiente sentire un profumo o un sapore per essere catapultati indietro di una vita e vedere affiorare momenti piacevoli dell’infanzia. A me è capitato qualche tempo fa scorrendo il menù di una pizzeria, al momento della scelta del beveraggio; la mia attenzione è stata catturata dalla dicitura “La Vera Gazzosa” 

 

gazzosa-21-300x300Ho pensato subito ” caspita è da una vita che non la bevo” , ma sicuramente sarà la solita bibita gassata dolcissima, niente a che vedere con quella dissetante bottiglietta che da ragazzino mi ristorava nelle torride estati palermitane. Superando i dubbi mi convinco per ordinare al posto della solita birra una bottiglia di questa “Vera” Gazzosa; dopo qualche minuto mi viene recapitata al tavolo una bottiglia di vetro con una etichetta gialla dallo stile decisamente “vintage” che mi precipito a leggere con attenzione. In posizione predominante infatti viene posta la dicitura “Presidio del Limone Sfusato di Amalfi”; questo nome non mi è assolutamente nuovo, si tratta infatti di uno dei Presidi Slow Food campani più conosciuti. Si tratta quindi di un ingrediente decisamente nobile e ricercato, una scelta insolita per aromatizzare una bibita comune. Il Limone Sfusato di Amalfi ha una storia lunga almeno 300 anni e viene coltivato sui suggestivi terrazzamenti della Costiera Amalfitana. Le caratteristiche di questo agrume sono i suoi profumi, carichi ed intensi, merito dell’abbondanza di oli essenziali presenti nella buccia e nella polpa. Da secoli lo Sfusato di Amalfi viene impiegato nella preparazione di gelati e sorbetti, trova ovviamente posto in numerose preparazioni gastronomiche ma il suo trionfo lo ha sicuramente conosciuto per essere l’ingrediente principale del Limoncello, liquore digestivo e dissetante apprezzato in Italia e all’estero.

[link slow food: http://www.presidislowfood.it/ita/dettaglio.lasso?cod=131]

lurisia_gazzosaTorniamo alla mia “fortuita” degustazione; decisamente incuriosito dalla lettura dell’etichetta non esito a riempirmi il bicchiere con questa bevanda fredda e incolore. Al primo assaggio ho provato quella sensazione di viaggio nel tempo alla quale accennavo all’inizio. Il gusto di questa gazzosa è carezzevole ed equilibrato; non predomina il dolce e gli aromi del limone amalfitano sono ben dosati. Anche l’effervescenza sembra rispettosa dell’equilibrio donato al palato dalla Gazzosa, è persistente ma non fastidiosa come quella di altre bibite gassate. Sorso dopo sorso mi sono reso conto quanto questa Gazzosa Lurisia sia “Vera” nel senso più genuino del termine; non bevendo “l’originale” da decenni è possibile che il mio palato sia stato per così dire suggestionato, ma l’ho trovata estremamente fedele ai miei ricordi d’infanzia. Questa bibita ha accompagnato in maniera delicata la mia pizza di quella sera, ovviamente non è bastata una sola bottiglia da 275 ml., e le ho riconosciuto una buona dote digestiva. Con estrema gioia ho ritrovato questo prodotto Lurisia tra gli scaffali della Grande Distribuzione ed ho provveduto, in vista della stagione estiva, a farne una buona scorta da tenere in frigo. lurisia-premium1Cercando in rete un approfondimento sull’azienda che produce la bibita, ho scoperto che si tratta di un produttore di acque minerali di qualità con sede a Lurisia Terme, una frazione di Roccaforte Mondovì in provincia di Cuneo ( foto sopra) . Le acque prodotte dalla Acque Minerali S.r.l. (la ragione sociale del produttore, nda) sembrano molto apprezzate a livello internazionale; dal sito istituzionale scopriamo infatti che Eataly ed il Salone del Gusto hanno scelto Lurisia come acqua ufficiale. La Vera Gazzosa Lurisia è inoltre stata scelta da Slow Fish, da Cheese ” Le forme del Latte” e dal già citato Salone del Gusto.

Gabriele Amodeo

 

www.lurisia.it

Risotti alla milanese

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morattiPiccoli disastri gastronomici possono essere il segno di riconoscimento di un prossimo disastro politico? Suvvia, riconosciamolo: Letizia Moratti, classe 1949, milanese doc, è un candidato trombato soprattutto per il suo carente rapporto con il risotto. Non sorridete, la cosa è fin troppo seria. Certo, non solo di risotto è mantecata la sconfitta. Lo stesso Cavaliere di lei consente che sia troppo algida .

risotto pereProssima alla ricandidatura, la Lady di Ferro provò a cambiare look, in primis quello della comunicazione. Ringiovanisce lo staff e riporta la sua agenda per le strade: vie, piazze, mercati, case di riposo e scuole, ma anche cucine. Finisce sulle gazzette di gastronomia, Gambero Rosso ad esempio, a parlar di panettone; la festa della Donna al fianco di Benedetta Parodi, in versione chef, più attenta a non fare “attaccare” il riso che a guardare la telecamera. E che riso? Un risotto pere e formaggi, di cui ci fornisce anche la simpatica ricetta, edificata sull’aroma speziato e stagionato della Robiola, ammorbidita dal dolce delle pere.

moratti (1)In versione massaia, Donna Letizia, smesse certe cotonature english style e indossati vestitini più sgargianti, ci confessa così la sua passione per i fornelli. In realtà, qualche sospetto l’avemmo già a Natale, dopo la “risottata” con i cronisti di Palazzo Marino, in cui la Moratti stupì tutti cucinando un risotto alle rose per trenta persone, svelando sì un giocondo profilo di moglie, mamma e nonna, ma perché quel “risotto alle rose”, come una qualunque Signora Cecioni? robiolaParliamo ora della Robiola. Trattasi di formaggio fresco a pasta cruda e senza crosta, lombardo per modo di dire, ma tipico delle province di Asti e Alessandria, Bassa Langa, Piemonte. Sicuro che a Milano, in Lombardia, non ci fosse il “suo” formaggio? Sta a pochi chilometri da Milano invece, territorio di Lodi. Si chiama Pannerone, cacio vaccino della tradizione contadina lombarda. Formaggio unico e complesso, le cui origini si perdono nel medioevo e tra le tonache dei monaci benedettini. E’ il dolce e aromatico perfetto, con appena una sfumatura amara, eccellente quanto insostituibile per i risotti lombardi con le pere.

Già in precedenza il risotto fu galeotto al sindaco meneghino insediato da pochi mesi. Era il luglio del 2006. A pranzo a Palazzo Marino, ospiti il premier Prodi e il sottosegretario Letta, il menu prevedeva il più classico dei piatti milanesi. Ai fornelli, quella volta, non c’era la Moratti, ma la pietanza deve essere piaciuta assai ai due ospiti romani, tanto che siglarono con il sindaco di centrodestra il cosiddetto “patto del risotto”, alleanza di ferro sul futuro e sulle ambizioni della città per tentare la corsa all’Expo, che poi sarà vinta.
Chi c’era ai fornelli? Forse il Re dei cuochi, il più milanese degli chef, che di sé dice: “Sono un grande conservatore che cammina verso il futuro”.  gualtiero-marchesi
No, non alludo a un prematuro Giuliano Pisapia, ma ovviamente a un caposcuola-mai-in-pensione, che stava già meditando di riaccendere i fuochi nella piazza di Milano, Gualtiero Marchesi. Semplicemente il più influente chef italiano di tutti i tempi.

“Noi siamo il paese dell’eleganza, niente barocchismi… insegno ai cuochi la concretezza, la semplicità e l’eleganza fra tradizione e innovazione”. Marchesi interpreta così Milano e l’Italia, la cucina e il risotto. Cucina nuova (nouvelle cousine) anche nel risotto, che non a caso resta per lui un prototipo di come una ricetta tradizionale richieda un radicale intervento di restauro per rimanergli fedeli. Sulla mantecatura riveduta e corretta si dilunga in un libro: “Nel suo classico procedimento di preparazione, la fase iniziale costituisce sempre una soluzione di compromesso. A rigore, è infatti impossibile stufare la cipolla e rosolare contemporaneamente il riso. Fatalmente, l’uno deve essere sacrificato alle esigenze dell’altro: per mantenere la cipolla bianca, il riso potrà soltanto stufare; se volessimo rosolarlo a dovere, allora la cipolla prenderebbe colore, assumendo di conseguenza un gusto tostato e greve. Mi sono lungamente arrovellato su questo paradosso culinario. Per scioglierlo, la soluzione consiste nel disaccoppiare la cottura dei contendenti”.
marchesi1Ero già convinto dell’eccellenza della politica andreottiana dei due forni, ma non pensavo arrivasse a tanto. E allora il “Divo Gualtiero” ci illumina ancora sul primo forno: “Il riso viene fatto rosolare direttamente nel burro, portato a temperatura conveniente. In seguito, si bagna con un mestolo di brodo bollente e, fatto asciugare il liquido, si aggiunge dell’altro brodo, proseguendo la cottura come prescrive la tradizione”.
Secondo forno: “Nel frattempo, la cipolla viene cucinata a parte: si fa sudare in pochissimo burro dentro una casseruola, si bagna con il vino bianco e si lascia sfumare il liquido sul fuoco. Alla fine si incorporano dei fiocchetti di burro ben freddo, emulsionando con la frusta sino a ottenere una crema omogenea. … E’ ciò che in gergo gastronomico si chiama burro bianco o burro nantese. … Nulla vieta di adoperarlo per mantecare il risotto…”.
Lady Letizia, hai capito ora perché hai perso?

Giorgio Contino

 

Davide Mengacci in tv tra padelle e forchette alla scoperta del Belpaese

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mengacciDa quando ormai per lavoro si trova davanti ai fornelli ha sempre sostenuto a milioni di telespettatori che lui non si definisce un “cuoco, bensì un uomo che cucina”. Oggi alla nostra tavola abbiamo ospite il simpatico Davide Mengacci. Il popolare conduttore dallo scorso mese di aprile è protagonista su Retequattro, ogni giorno dal lunedì al sabato alle 10:50, con Michela Coppa, di “Ricette in famiglia”.

Mengacci, milanese “doc”, 63 anni il prossimo 8 settembre, da quando cura la “striscia” quotidiana a Retequattro si sta ritagliando uno spazio tra “La prova del cuoco” di Antonella Clerici su Raiuno e “Cotto e mangiato” di Benedetta Parodi su Italia1.

Dal 1996 con “La domenica del Villaggio” ad oggi con “Ricette in famiglia”, passando anche da “Fornelli d’Italia”, l’ex pubblicitario milanese con la passione della fotografia, racconta il Belpaese attraverso la culura gastronomica. Ma rispetto alle sue precedenti trasmissioni, Mengacci mette in “vetrina” anche il turismo, l’arte, l’artigianato e le tradizioni popolari dei luoghi attraversati dalle telecamere di Retequattro.

 

 

Il suo debutto in tv, dopo avere “mandato” all’aria il suo lavoro di pubblicitario, risale al 1986 con “Otto Italie allo specchio” su Canale 5. Partecipa a “Pentathlon” di Mike Bongiorno. E’ la sua svolta perchè inizia la sua carriera di conduttore con “Scene da un matrimonio”, “Candid Camera Show”, “Il pranzo è servito”, “La cena è servita”. E dopo quasi, a catena arrivano, “Il sabato del villaggio”, “La domenica del villaggio”, “Fornelli in piazza”, Cuochi senza frontiere”. Forse però pochi sono a conoscere che, a parte l’agenzia pubblicitaria che fino al 1986 è stato il suo principale lavoro, Davide Mengacci è anche un valente fotografo. La sua passione affonda le radici a quando bambino, aveva appena 11 anni, ha avuto tra le mani una Comet S Bencini.

Di recente, ad una rivista specializzata di fotografia ha dichiarato: “Sono diventato conduttore televisivo ma non ho mai parlato pubblicamente di questa mia prima attività perché sono sempre stato convinto che questa esperienza appartenesse solo alla mia sfera personale e che non interessasse minimamente il pubblico televisivo; una sensazione che si è rivelata sbagliata, contraddetta dal grande successo che ho ottenuto, anche recentemente, con le mie mostre e con la pubblicazione dei miei libri di fotografie”.

 

Lo abbiamo invitato alla nostra tavola, aggiungendo un posto e con lui abbiamo parlato di cucina, di sapori, odori e profumi della gastronomia italiana. D’altronde, ormai lui è entrato nelle case di tutti gli italiani con tanto di cucchiaio, pentole, padelle e…panama bianco, per ripararsi dal sole.

Mengacci e la cucina. In che rapporto? Di amore o di odio?

“Il mio rapporto è professionale. Sono un uomo che cucina, ma soltanto in televisione, davanti alle telecamere. Nel senso che so cucinare ovviamente, sono più di 25 anni che lavoro in tv e da 15 che mi occupo di gastrononomi, quindi volente-dolente ho imparato. Ci sono dei piatti che mi vengono meglio degli altri, però quando sono a casa mi guardo bene dal cucinare. Il posto ai fornelli lo lascio a mia moglie. Io identifico il cucinare con il lavoro. Per me, insomma, è un’attività lavorativa”.

Quali sono i suoi piatti preferiti? Quelli non da cucinare, bensì da mangiare…

“Preferisco i primi piatti e moltissimo i dolci”.

Cosa in particolare?

“Fra i primi piatti ci mettiamo tutte le paste ripiene: tortellini, agnolotti e i ravioli, ma nella mia tavola non devono mancare i risotti, preparati in qualsiasi maniera. Per quanto riguarda i dolci, sono abbastanza goloso per quelli cosiddetti al cucchiaio, quindi creme, bavaresi…”.

Facciamo un gioco: dall’alto di una torre cosa gettiamo giù un risotto alla milanese oppure un piatto di bucatini con le sarde, alla palermitana, s’intende…

“Siccome sono di Milano ed i risotti li mangio quando voglio, quindi salvo un bel piatto di pasta con le sarde che gusto sempre ben volentieri ogni volta che vengo giù in Sicilia”.

Lei ha una passione che si porta da fanciullo: la fotografia. Come accosterebbe una sua immagine ad un piatto tipico del nostro Belpaese?

“Il fotografo non è mai stata la mia professione, io prima di approdare alla tv ho fatto il pubblicitario. La fotografia è una passione che io coltivo da quando avevo 11 anni e continuo a coltivare anche adesso. E’ un buon paragone con la cucina. Se ho una foto che ritrae un angolo di Milano lo accosto come è ovvio al risotto alla milanese. Se ho una foto di Palermo, ad esempio il mercato della Vucciria, allora accosto la foto ad una bella cassata siciliana, alla palermitana, oppure un buon tonno scottato con semi di sesamo. Se poi ho una foto della Toscana abbino la ribollita. Un’immagine della Liguria l’accosterei ai pansoti col sugo di noci. Una foto di Venezia, invece, la farei sposare con il fegato alla veneziana. L’Emilia Romagna con i tortellini”.

Lei ha girato in lungo ed in largo tutte le regioni italiane portando nelle case degli italiani i colori, i sapori ed i profumi della cucina nazionale. Quali sono i cibi ai quali è più affezionato?

“Io in questi anni ho fatto una mia personale classifica delle regioni dal punto di vista gastronomico, naturalmente sono quelle che preferisco più di altre in tema di gastronomia ed enograstronomia. Al primo posto l’Emilia Romagna, al secondo a pari merito Veneto e Piemonte. A seguire Lombardia e Toscana, sempre a pari merito. E basta…”.

In questa sua speciale classifica non figura la Sicilia. Come mai? Una dimenticanza?

“Non ho dimenticato la Sicilia. Me l’aspettavo questa domanda. La Sicilia a mio parere centra poco con il resto dell’Italia. In questo per carità non voglio fare distinzioni tra Nord e Sud. La Sicilia è un continente a parte, dove capitano cose davvero magiche. Io mi sento siciliano nel cuore. La Sicilia è un mondo a se stante sia dal punto di vista paesaggistico, climatico, culturale, culinario, turistico. La Sicilia è la regione del Sud che preferisco a tutte le altre, da tanti punti di vista. Ricordiamo che questa isola è stata influenzata da diverse dominazioni e da ognuna ha preso il meglio ed il peggio. E’ una regione assai complessa e questa varietà di cultura le dà questa ricchezza”.

Qual è il suo piatto siciliano che preferisce più di altri?

“Come ho detto all’inizio io amo moltissimo i dolci e alla Sicilia è legato un mio aneddoto curioso. Una ventina di anni fa, mentre conducevo la trasmissione Scene da un matrimonio e mi trovavo a Linosa, ho accusato all’improvviso un piccolo malessere: stress da superlavoro. Vuol sapere come ho superato la crisi? Con un quarto di cassata siciliana! Quindi è stata una cura efficacissima che consiglierei a tutti coloro i quali si sentono nella vita stressati…”.

A chi daremmo l’Oscar della cucina? A chi consegnerebbe il “cucchiaio d’oro”?

“Non è facile. Il cucchiaio d’oro lo assegnerei, sinceramente, al risotto alla milanese. Naturalmente quello tradizionale preparato con lo zafferano ed il midollo di bue che è particolare e che fa la differenza”.

Dal punto di vista di creatività, sono più geniali i cuochi uomini o le cuoche donne?

“Non c’è paragone. I più forti, i più geniali sono i cuochi uomini. Perchè sono più tecnici da una parte e più passionali dall’altra. Mentre le cuoche donne sono più fredde. La cuoca donna deve dare da mangiare alla famiglia, cucinare velocemente, fare la spesa e magari andare anche a lavorare. Non può considerare la cucina né con il tecnicismo che richiede una professione né con la passione che ci mette, invece, l’uomo che cucina. La donna non ha tempo per queste cose”.

Antonio Fiasconaro

 

La Tenuta Colle Massari, sponsor di Alinghi

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Colle Massari è una proprietà straordinaria dei fratelli Maria Iris e Claudio Tipa, si trova in Toscana nell’Alta Maremma e nella zona di Bolgheri. Maria Iris è la mamma di Ernesto Bertarelli, lo svizzero “mister Alinghi”, da 10 anni leader dell’America’s Cup. Ed esattamente, in Maremma c’è il Castello di Colle Massari, acquistato nel 1998, dove si produce dal 2000 il pregiato Montecucco DOC, tra le due DOCG del Brunello di Montalcino a Nord e il Morellino di Scansano a Sud (Ni.Pa.)