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Galantina di salmone con arance e cucunci

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Una sfiziosa ricetta, veloce e di grande effetto, per servire un finger food di classe. Da una ricetta dello Chef Max Mangano, in esclusiva per i lettori di Scelte di Gusto. Gli ingredienti ed il procedimento per portare sulla vostra tavola il prestigio di piatti firmati.

Cake design, torte arte e passione

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Cos’è un evento senza la torta perfetta? E cos’è ormai una torta se non è una torta spettacolare? Il cake design è indubbiamente una passione ormai dilagante, un’arte d’impatto che affascina e fa tendenza al punto che la decorazione dolciaria nei prossimi giorni sarà protagonista al Sigep (P.Pi.)

Arriva l’ambasciatore della cultura italiana dell’espresso

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Il piacere di un caffè è un piccolo vizio a cui pochi rinunciano, sin dal risveglio. Pur non essendo un prodotto autoctono, paradossalmente l’Italia è una delle nazioni dove si consuma maggior caffè e di qualità e l’espresso è simbolo del “made in Italy” nel mondo. I paesi nordici primeggiano per consumo, ma la miscela è differente e molti storcerebbero il naso a definirlo il “caffè per eccellenza” (P.Pi.)

 

Viri Napule e po’ murì

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piazzaplebiscitoNapoli è caotica, però è anche ferma da secoli sulle fondamenta delle sue meraviglie; è da scoprire, perché di musei, monumenti, chiese, è piena da far invidia alla più viva fucina d’arte: Napoli che vive, che soffre, che si lascia criticare e che si fa amare con una passione non estranea al viaggiatore più esigente. Una città non priva di contraddizioni eppure nella piena consapevolezza che non esiste bianco senza nero, male senza bene, Napoli è da raccontare (Ti.Ni.)

Il migliore babà di Napoli? La Galleria Umberto gli fa da sfondo!

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La galleria Umberto, centro nevralgico per lo shopping partenopeo, è maestosa quanto bella. Accogliente, propone manifestazioni di piazza, non è infrequente infatti trovare gruppi folk suonare attorniati da passanti, invitante per le diverse vetrine dei vari negozi sorti all’interno e poi, stuzzicante nel caso in cui alla Galleria si decida di passare per una dolce pausa in compagnia di un babà.

Meravigliosi i babà della pasticceria sita appena all’ingresso della Galleria Umberto, si chiama Mary e l’apertura si affaccia su via Toledo;  accattivanti per gusto, per quella bagna al rum che non stanca e poi è gradevole l’atmosfera se l’intento è quello di una pausa dolce racchiusa in una cornice così suggestiva come quella che offre il tetto in vetro e ferro della Galleria; piacevole ritrovarsi a passeggiare sotto quella cupola da cui filtra una soffusa e delicata luce.
Al centro della pianta ottagonale, da cui si snodano le quattro braccia della Galleria, ogni anno – nel periodo natalizio – viene posto un maestoso albero che in poco tempo si riempie di biglietti. Biglietti di speranza, richieste di desideri inespressi a voce, l’albero della Galleria accoglie l’accorato coro dei suoi cittadini in questa usanza che ormai perdura da molto tempo. Nata per rivalutare questa parte di città, nata per invitare i cittadini a spostarsi dalle proprie abitazione e a far di lei centro di appuntamenti, inaugurata nel 1890, fin dall’inizio la Galleria Umberto è stata dedicata allo shopping, alla passeggiata – con qualsiasi temperatura e sotto le intemperie di uggiosi giorni di pioggia, il tetto ripara – alla pausa golosa. La pasticceria Mary sorge come sede unica all’interno della Galleria e espone una vetrina ricca di dolci da non lasciare indifferenti nemmeno i meno golosi; ma il babà è forse il dolce per eccellenza che può caratterizzare la pausa nel pressi della Galleria e questa pasticceria.

Vicinissimo, sorge proprio su via Toledo, è uno dei templi della sfogliatella napoletana sia riccia che frolla, Pintauro; eppure estimatori locali, coloro i quali hanno nel DNA il gusto per queste delizie tutte partenopee, riescono ad affermare che le sfogliatelle di Mary sono la “fine del mondo”. Così non ci resta che lasciare aperto il quesito e chiedere a voi: sfogliatella da Mary o da Pintauro? Per quel che ci riguarda, ci sacrifichiamo volentieri nel provarle entrambe.

Degni di nota sono i babà al limone di Mary, forse – da profani ma con uno spiccato senso del “gusto” – potremmo definirli i migliori di Napoli e quello che ci conforta nell’affermare ciò è che davanti all’ingresso della Galleria Umberto, proprio dove quelle vetrine invitano alla gola, c’è sempre una folla di gente che attende il turno. Attesa che vale davvero la pena di esser vissuta.

Tiziana Nicoletti

La jota con i capuzi garbi, esalta la tradizione triestina

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Dire che un cibo è acido è come dargli una valenza negativa, perché “acido”, quasi sempre sta per sgradevole. Nella cucina triestina però, tale sapore non è necessariamente indice di qualcosa di disgustoso, da disprezzare, ma per certe pietanze addirittura, sinonimo di squisitezza. (E. Ri.)

Frolla fu la prima sfogliatella, a voi l’emozione del primo assaggio

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sfogliataricciaCome molti dolci entrati di diritto nella tradizione gastronomica di intere generazioni, anche la sfogliatella napoletana ha visto i suoi natali tra le mura di un convento. “Madre Clotilde, suora cuciniera pregava d’a matina fin’a sera; ma quanno propio lle veneva‘a voglia priparava doie strat’e pasta sfoglia. Uno ‘o metteva ncoppa e l’ato a sotta, e po’ lle mbuttunava c’a ricotta, cu ll’ove, c’a vaniglia e ch’e scurzette…

La storia in versi della sfogliatella napoletana narra proprio di come Madre Clotilde, suora di clausura del convento Santa Rosa di Amalfi, ebbe l’intuizione di preparare la prima sfogliata di pasta frolla meglio nota come frolla o santarosa per l’appunto.

Nasce in un monastero, la sfogliatella, all’ombra di quella necessità che nel ‘600 partenopeo le suore del convento di Santa Rosa nutrivano nel tentativo di sbarcare il lunario. Si guadagnavano da vivere così, preparando manicaretti, dolci da vendere ai contadini, e non solo, limoncello e nocillo sono due esempi di liquori preparati da quelle suore con la stessa maestria, tra una preghiera e un momento di raccoglimento.
La clausura permetteva loro di stimolare l’ingegno, coltivavano l’orto e si dedicavano alla fattura del pane ed a cucinare non solo per i bisogni interni al convento, ma facendo di questa pratica un vero e proprio commercio. Naturalmente nessuno spreco era ammesso ed è proprio da questa necessità di riciclo degli alimenti che nasce uno dei dolci tipicamente partenopei più noti al mondo, la sfogliatella.
Per oltre un secolo quei due strati di frolla, rigorosamente preparata con l’unico grasso diffuso in quel periodo, lo strutto (non certo il burro o l’olio, il cui ingresso nelle cucine è successivo), farciti con la sperimentazione di Madre Clotilde – avanzata della semola cotta nel latte, ella decise di unire zucchero, limoncello e frutta secca, evidentemente l’uso anche della ricotta nel ripieno è solo successivo – rimasero confinati dentro le mura del convento.

Siamo nell’800 quando Pintauro, allora oste con una bottega avviata in via Toledo a Napoli, si appassiona tanto alla santarosa da decidere di cambiar mestiere: diviene pasticcere modificando la sua locanda nell’attuale laboratorio dolciario. Esista ancora la pasticceria sita in via Toledo, è un vero e proprio tempio della sfogliatella, l’odore si diffonde lungo la via e attira locali e turisti in un continuo sfornare di sfogliatelle calde da mangiare al volo, lì per strada, o da portare in dono. Pochi altri sono i dolci sfornati dai forni di Pintauro, sicuramente il perché è scritto nella storia e la sfogliatella fatta lì, dopo oltre duecento anni, è tra le più buone che la città di Napoli riesce ad offrire.
Ma torniamo un momento alla storia; Pintauro riuscì ad ottenere la ricetta della santarosa – che oggi è nota per un ripieno composto da amarene e crema gialla – e portandola in città decise di apportare le modifiche che oggi conosciamo. Diede una forma nuova alla frolla, con una protuberanza che ricorda un po’ il cappuccio di monaco. Solo successivamente naque la riccia e con il suo sapore croccante, la veste dorata, si affermò ancor più della sorella maggiore.

E per tornare alle strofe che ne raccontano storia:
“So’ doje sore: ‘a riccia e a frolla(…) Chella riccia è chiù sciarmante: veste d’oro, ed è croccante, caura, doce e profumata. L’ata, ‘a frolla, è na pupata. E’ chiù tonna, e chiù modesta, ma si’ a guarde, è già na festa!”

Noi abbiamo provato rigorosamente entrambe, la riccia – capricciosa, bellissima quanto buona prima donna  – e la frolla – morbida e rassicurante, donna d’altri tempi, melodica e armoniosa – che ci ha conquistato facendo capitolare il gusto innanzi a tanto ingegno dell’antica arte pasticcera partenopea.

Sfogliatella frolla, la ricetta della tradizione tratta dal sito omonimo

300 g si farina
150 g di sugna (strutto)
120 g di zucchero
200 g di semoloino
200 g di ricotta
175 g di zucchero a velo
100 g di cedro e scorzette d’arancia
1 bustina di vaniglia

Fate la pasta frolla e mettetela a riposare. In una pentola portate a ebollizione 5 dl di acqua con un pizzico di sale, versate a pioggia il semolino e fatelo cuocere per circa 15 minuti, mescolando continuamente con un cucchiaio di legno. Fatelo raffreddare. Passate a setaccio la ricotta, unitevi lo zucchero a velo, la vaniglia, un uovo, il cedro e le scorzette d’arancia tritati ed il semolino raffreddato. Sulla spianatoia distendete la pasta frolla e ricoprite con questa una tazzina, ponete quindi al centro una parte del ripieno, ripiegate la pasta premendo bene sui bordi, ritagliatela con il tagliapasta in modo da ottenere delle sfogliatelle uguali. Collocatele su una placca unta appena appena di sugna e spennellate con l’uovo sbattuto. Infornate a forno già caldo a 180 gradi per circa 15 minuti. Servitele calde spolverate di zucchero a velo.

Così è raccontata la ricetta della frolla su uno dei siti dedicato a questa bontà, a noi non resta che provare a sperimentare nel tentativo di ricreare quel profumo e quel sublime sapore direttamente a casa nostra.

Tiziana Nicoletti

Il cibo è di scena a San Gregorio Armeno

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presepe È la via dei pastori, è una delle più tipiche pennellate Napoletane, cuore pulsante che non si ferma mai neppure in piena estate. I presepi sono esposti, raccontati, venduti o solo contrattati in ogni periodo dell’anno, ma intorno al Natale l’animosità di questa via prende una piega accesa, brillante, sprizza vita: animata di turisti e inanimata di pastori (Ti.Ni.)

Pastori che si accingono a salutare il Salvatore, che lasciano le case con gli usci aperti e si sperdono per i viottoli di pietrine ricostruiti con sapienza; pastori, ancora, che non dimenticano che il desinare è parte integrante dell’esistenza. Molti gli scorci presepiali che illustrano un momento di vita familiare intorno ad un tavolo, nell’atto del cibarsi, in quello più ludico del giocare a carte oppure solo protesi verso un tavolo attenti ad ascoltare la zingara parlare di fato e di novelle.

Napoli è questo in San Gregorio Armeno: clima di festa, spazio alla memoria, alla commemorazione di una ricorrenza religiosa in cui gli elementi sacri si mischiano a quelli profani. Non è raro trovare tra i pastori volti noti e attuali, da Cavani al Pocho Lavezzi – tifo sentito oltremodo per la squadra cittadina – da un ex premier circondato da donnette alla politica di questi tempi. Figure storicamente ancorate alla città, da Pulcinella a Totò, e figure necessarie – ogni pastore riconosciuto dalla tradizione ha un nome proprio di persona, come Benino il pastorello dormiente che si colloca in cima alla scena tutta – nel caso in cui si voglia allestire un presepe con tutti i crismi.

Ci sono degli elementi essenziali, oltre la grotta con la sacra famiglia, l’arcangelo Gabriele, i re Magi  e il bue e l’asinello, e sono la fontana, il pozzo, la pastorella, la lavandaia, l’osteria ricca di cibarie e i venditori: pescatori, panettieri, macellai, fruttivendoli, salumieri. Si vendono uova, formaggi, quarti di bue, zucche, pecore e cavolfiori, perfino la pizza calda di forno a legna, si vende un attimo di vita passata tra quei volti in terracotta decorati da mani esperte.

Molte le raccolte presepiali di valore esposte in vari punti della città. La certosa di San Martino, ad esempio, espone una raccolta molto completa, vari pezzi di presepi che raccontano l’oriente e l’occidente fusi in un solo istante: non è raro osservare tra i pezzi di questa raccolta, uomini di colore con scimmiette legate da un collare, cammellieri, musici con mandolini e chitarre, lo Zì monaco ovvero il frate francescano con tanto di bisaccia che bussa agli usci chiedendo l’elemosina; vesti variopinte tutte cucite a mano perfino nelle rifiniture di minuscoli occhielli per bottoncini dorati. L’oriente poi è rappresentato dal bue, animale considerato sacro e simbolo di pazienza e riflessione, mentre l’occidente è interpretato dall’asinello e raffigura l’operosità, l’essenza laboriosa. Il mondo unito iconograficamente dunque nel gesto di “riscaldare” il Salvatore.

Ogni parte del presepe ha il suo significato e il cibo è raffigurato in mille sfumature che solo le immagini ora possono raccontare. Una cosa è certa, per chi approda in quel di Napoli è d’obbligo una passeggiata lungo la via dei presepi per respirare una tradizione che si tramanda, che crea amatori ed estimatori e che non conoscerà mai fine.

Tiziana Nicoletti

Alimentazione&Salute: il menù del fast food non può essere la merenda

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Le “malattie del benessere” stanno sempre più diventando emergenza globale: diabete e obesità su tutte e la sedentarierà, la disinformazione e gli eccessi alimentari, secondo gli esperti, sono tra le maggiori cause. Per contrastrarle, quindi, bisogna agire e presto, su stili di vita e nuove abitudini alimentari. (A. Fi.)

Nelle contraffazioni agroalimentari finiscono anche la mortadella siciliana e il Marsala

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La contraffazione e la pirateria nel settore agroalimentare si stanno diffondendo sempre più a macchia d’olio. Non c’è alcun freno. Così sulle tavole possono finire la mortadella siciliana prodotta in Romania o addirittura il Marsala confezionato negli Stati Uniti. (A. Fi.)