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Sequestro falso Verdicchio: il consorzio sarà parte civile

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verdicchioL’Istituto marchigiano di tutela vini (Imt) ringrazia l’Ispettorato Repressione Frodi dei prodotti agroalimentari di Emilia Romagna e Marche per aver condotto le indagini, avviate in seguito a una segnalazione da parte del nostro Consorzio, in modo attento e tempestivo a tutela della principale Doc marchigiana, che immette sul mercato circa 15 milioni di bottiglie l’anno con 401 viticoltori e quasi 2.200 ettari coltivati”. Lo ha detto il direttore dell’Istituto marchigiano di tutela vini, Alberto Mazzoni, commentando il recente sequestro di 150mila litri di falso Verdicchio dei Catelli di Jesi rinvenuti in una Cantina di Cossignano e nella piattaforma di una catena di distribuzione a Monteprandone (Ascoli Piceno) e a Perugia. “Un’azione congiunta, condotta grazie anche al ruolo indispensabile dell’ente terzo di certificazione Valoritalia Sop 21, che rientra nei compiti statutari del Consorzio a salvaguardia del vigneto Marche: per questo – ha aggiunto Mazzoni l’Istituto sulla vicenda si costituirà parte civile e presenterà una denuncia contro ignoti. Quella della lotta alla contraffazione rappresenta l’altra faccia di una medaglia, quella della qualità, che il nostro prodotto si è conquistato sul campo. Ad esempio, proprio nei giorni in cui gli organi di controllo ponevano i sigilli alla merce contraffatta, il Wall Street Journal pubblicava una lunga e positiva recensione sull’unicità del nostro autoctono”.

verdicchio1Il Verdicchio dei Castelli di Jesi, al suo 50° dalla nascita della denominazione, è uno dei prodotti autoctoni italiani più apprezzati dalla critica nazionale e internazionale, forte di un export in crescita sulle principali piazze – Usa, Nord Europa e Germania in primis -, e di un progresso qualitativo generato anche dalla recente ristrutturazione dei vigneti (circa 600 ettari) e da 7 milioni di euro investiti in cantina dai soci Imt solo nell’ultimo anno. La settimana scorsa, sottolinea il Consorzio, il bianco fermo da 4 anni più premiato dalle guide italiane del settore ha riscosso il favore della critica al World Wine Awards 2018 di Decanter, la rivista britannica che ogni anno pubblica i risultati del più grande concorso enologico mondiale, con 15 prodotti (13 Verdicchio dei Castelli di Jesi e 2 di Matelica) oltre il punteggio di 90/100, contro i 4 di 2 anni fa.

 

Made in Italy. Metà dei Cinesi non conosce i prodotti italiani. E per loro il vino è sinonimo di Francia

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cinesevinoLa pasta e il Barolo sarebbero il cibo e il vino italiani più conosciuti dall’upper class cinese. Ma a vincere è la non conoscenza del made in Italy, con la metà dei consumatori chiamati ad associare al Belpaese un prodotto/brand agroalimentare che risponde ‘non so’. Lo rivela un estratto dell’indagine dell’Osservatorio Paesi terzi di Business Strategies sul posizionamento del made in Italy in Cina, condotta da Nomisma Wine Monitor su un campione di 1.000 cittadini dal reddito medio-alto residenti a Pechino e Shanghai.

quadrifoglio pasta1L’equazione Italia-buona tavola è un’associazione che non può ancora essere data per scontata in Cina – ha detto Silvana Ballotta, Ceo di Business Strategies –. A fronte di un mercato in crescita e di un primo trimestre record a + 41,4% per il vino italiano, solo la metà dei consumatori dimostra di saper associare al nostro Paese almeno un prodotto enogastronomico. Questa mancanza, da un lato di conoscenza e dall’altro di promozione, si traduce in un deficit di comprensione sul fronte consumer e in una conseguente difficoltà di posizionamento per i nostri produttori, a vantaggio dei competitor”. Quasi 7 cinesi su 10, infatti, associano la categoria “vino” alla Francia, mentre sono solo 2 su 10 quelli che si orientano verso l’Italia. Un risultato che migliora solo leggermente quando si parla di cibo, con il Belpaese menzionato da un quarto del campione, dietro al Giappone (37%), ma prima di Francia (15%) e Usa (14%).”

mondo vino_0Secondo la survey condotta nelle due metropoli asiatiche, è la pasta la più conosciuta dai cinesi, nominata dal 31% di coloro che danno un’indicazione di prodotto e seguita dai brand Ferrero (10%) e Illy (4%). E mentre restano appena fuori dal podio la pizza (4%) e l’olio d’oliva (3%), a sorpresa il Tiramisù batte spaghetti, Barilla, formaggio e maccheroni. La classifica del vino vede premiati Barolo (13%), Amarone (7%) e Chianti (6%), seguiti però da risposte come “Piemonte”, “Docg”, “Italia”, “vino italiano”, “vino rosso” e “Toscana”, indicazioni che evidenziano una sostanziale confusione culturale rispetto al nostro prodotto enologico.

Il risultato evidenziato rappresenta un estratto di una più ampia indagine in corso di svolgimento relativa alla percezione del lifestyle italiano anche in rapporto ai propri competitor, ai gusti e alle abitudini di consumo dell’upper class cinese di Pechino, Shanghai, Canton e Hong Kong per un campione complessivo di 2 mila intervistati.

 

La Caponata di melanzane, la sua origine e ciò che forse non sapete ancora

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caponata vaso di vetroPoche preparazioni gastronomiche tradizionali accendono dibattiti ed animi quanto la Caponata. Questo piatto, più indicato come antipasto ma impiegato anche come contorno e talvolta anche come piatto unico, suscita sempre molto interesse e curiosità, specialmente per quanto riguarda la sua origine e quindi il suo etimo. Ipotesi tra le più disparate, più o meno documentate o documentabili. Quest’oggi percorreremo l’interessante analisi di Luigi Milanesi, medico per professione e grande appassionato e studioso di etimologia della lingua siciliana  nonchè Consultore dell’ Accademia Italiana della Cucina di Milano.

Milanesi parte proprio dall’ etimologia della Caponata:

Capunàta, f., etimo grec., capto = tagliare, lat., capulare = fare a pezzi, etimo afgana kaupona, spagn., caponada (termine documentato nel 1709 ed indicava un piatto catalano simile alla capunata), nota gustosa pietanza, una volta preparata esclusivamente in famiglia a base di melenzane soffritte, salsa, capperi, sedano, olive, cipolla, aglio, aceto e pepe variamente dosati.

caponata-siciliana-melanzaneChi si appresta a mangiare una caponata non lo sa, ma questa specie di “ratatouille” di pezzetti di melanzane, capperi, mandorle, sedano, cipolla e pomodori è pressochè identica ad uno dei piatti base della cucina afghana” – racconta Milanesi. “Il tocco unificante è dato dall’agrodolce, un sapiente mescolare di aceto e zucchero per stuzzicare le papille gustative del più stanco dei mariti di ritorno dal lavoro in campagna. Nella cucina dell’Occidente dell’isola, l’agrodolce, ma anche il dolce salato, sono impronte sapientemente elaborate delle cucine di corte marocchine ed allo stesso tempo di quelle persiane di gusto arabo. Cucine urbane, di sedentari che hanno scoperto che oltre alla fame esiste l’appetito (TP)”.

Varie e molto accreditate sono le opinioni di altrettanti studiosi di gastronomia siciliana e non, che Milanesi ha riunito per offrire una visuale quanto più ampia possibile di questa affascinante preparazione. Riporta Milanesi:

caponata in legnoFrancesca Poidomani, Questore Aigs Ragusa, ricercatrice della storia e delle ricette tipiche del territorio ibleo e appassionata creatrice di nuove ricette mirate all’uso esclusivo dei prodotti del luogo. scrittrice del libro “ Il cibo degli Iblei” Officine Creative Editore e consulente enogastronomica, scrive :

Sono tante le scuole di pensiero che ci riportano alla parola Caponata. Qual è quella corretta? Senz’altro bisogna fare un salto nel passato per scoprire le sue origini e quale sia il suo significato.
A) La più antica e quella che potrebbe darci il significato diretto, affine alla maniera di tagliare le verdure è senz’altro quella greca, – Captos o Capto ossia tagliato. Effettivamente la caratteristica della Caponata è proprio la presenza di svariate verdure tagliate a pezzi più o meno della stessa misura, in riferimento alla varietà delle verdure. La Caponata che noi tutti conosciamo, solo nella nostra isola presenta 37 varianti. Diffusa in tutto il Mar Mediterraneo, è generalmente utilizzata come contorno o antipasto, ma sin dal XVIII secolo costituiva un piatto unico, accompagnata dal pane. B) Un’altra scuola di pensiero ci riporta a quella latina, Caupona o Cauponium ossia osteria. L’osteria effettivamente non è un luogo da sottovalutare, perché riconducibile a  quel posto di ritrovo di tutti i marinai che stanchi dal lavoro, andavano a bere un bicchiere di vino e a mangiare un pezzo di pane tostato condito con aglio, olio, olive, capperi e acciuga. Cibo povero, ma di particolare soddisfazione. C) Nulla da ridire sull’altra ed ultima supposizione, ossia quella derivata da Capone, inteso come pesce Lampuga, con il quale si realizzava una zuppa di pesce e verdure condite in agrodolce e che secondo alcuni sarebbe la caponata degli aristocratici. Riflettendo sulla modalità di esecuzione della Caponata è ovvia la crescita gastronomica legata alle diverse dominazioni che nel tempo sono state presenti in Sicilia e che hanno lasciato la loro impronta gastronomica: Greci, Arabi, Romani, Francesi. Qual è la verità? Non sappiamo cos’altro riusciremo a scoprire tra le poche memorie scritte dai gastronomi antichi, certo è che la Caponata sia essa Catanese, Palermitana, Trapanese, Ragusana, soddisfa sempre tutti e si realizza con l’uso delle più svariate verdure rigorosamente fritte e insaporite con aceto, zucchero e frutta secca. La presenza del capone nella caponata siciliana è però quasi esclusivamente una tradizione palermitana, che troviamo specialmente nella cucina dei Monzù ed è presente raramente in altre zone della Sicilia; questo tipo di ricetta oggi è caduta praticamente in disuso.

caponatagenericIn riferimento a quanto detto lo storico palermitano Vincenzo Mortillaro nel 1853 ne parla come un “manicaretto appetitoso” e nel suo Dizionario Siciliano-Italiano la descrive così: “pesce, petronciane (antico nome delle melanzane, nda) o carciofi ed altri condimenti, si mangia per lo per lo più fredda, o tra un piatto e l’altro per tornagusto, o dopo i primi piatti caldi” . Esistono infatti innumerevoli varianti della caponata siciliana, con sostanziali differenze determinate sia dall’area geografica di provenienza della ricetta sia dalle singole tradizioni familiari, che rispecchiano a volte lo spostamento di qualche membro di una famiglia, per matrimonio o altre ragioni, in una zona diversa.
Pino Correnti, illustre gastronomo, in un suo libro sulla cucina siciliana, il primo documento scritto che fa riferimento alla caponata è l’Etimologicum Siculum di S. Vinci, che nel 1709 la definisce molto genericamente “acetarium et variis rebus minutium conficis”, cioè “insalata e varie piccole cose preparate”.
caponata slideMichele Pasqualino, nei suoi due volumi del Vocabolario Etimologico del 1785 descrive la Capunata: dalla voce latina caupona = osteria in cui si usa una tale insalata per lo più cotta , condita di diversi salumi o acetaria condita.
Daniele Maestri, illustre gastronomo, scrive: “Secondo una linea di pensiero che dal gastronomo Apicio (I sec., d.C.) passa alla cucina baronale di età barocca, e poi ai “monzù” borbonici, anche nella Persia sasanide e nell’Arabia preislamica, l’agrodolce non è che il riflesso culinario degli opposti principi zoroastriani di sole e luna, bianco e nero, caldo e freddo che bilanciano il dualismo tra bene e male, tra menzogna e verità del mondo. Sia pure con innumerevoli varianti, la ricetta va assumendo i connotati attuali solo a fine Settecento-inizi Ottocento, quando si generalizza l’uso della salsa di pomodoro.
Nella “Singolare Dottrina” di Domenico Romoli detto il Panunto (1560), descrisse il passaggio evolutivo della caponata di pesce a quella a base di verdure. Per quanto riguarda il nome, è abbastanza difficile risalire alle sue origini. Nel libro si ritrova una ricetta arcaica della Caponata di melanzane, ortaggio introdotto in Sicilia dagli Arabi nel IX-X secolo; tra gli ingredienti vi sono sedano, capperi e olive, e l’agrodolce all’uso antico di aceto, zucchero di canna, uva passa e pinoli sostituisce il pomodoro, già noto, ma non ancora entrato nell’uso. Quanto alle melanzane, il loro impiego prevalente è cosa recente.
caponata siciliana con paneScrive Valentina Coppola : “le origini della caponata sono controverse. A partire dal 1700, la caponata, per la sua corposità, veniva consumata come piatto unico, accompagnata dal pane. Oggi è solitamente preparata come contorno. Originariamente, gli aristocratici erano soliti consumare una caponata a base di pesce, vera delizia per il loro esigente palato! Col tempo il pesce venne sostituito dalle melanzane, in quanto i ceti popolari umili, non potevano permettersi di acquistare pesce pregiato. Due sarebbero le tesi più attendibili: secondo la prima, il termine caponata deriva da “capone”, pesce dalla carne pregiata ed asciutta (oggi chiamato lampuga) condito con salsa agrodolce. Secondo la seconda tesi invece l’etimologia sarebbe riconducibile a “caupone”, termine che indica le taverne dei marinai, i quali erano soliti fermarsi in questi luoghi di ristoro.”

milanesiIn conclusione, dalle fonti e dagli illustri gastronomi e cuochi si evince che l’etimo è molto antico e che quasi certamente nasce da una cucina povera composta da verdure e solo successivamente intorno al 1500 quando, il titolo di Monsù si dava ai cuochi di casata, cioè a quanti avevano il privilegio di servire in case patrizie, arriva la presenza del pesce nella caponata siciliana che è però quasi esclusivamente una tradizione palermitana” (Monsù fu un appellativo, derivante dal francese Monsieur ovvero Signore, nda) – ribadisce Milanesi.” Oggi sappiamo che della Caponata esistono più di 37 varianti. La variante palermitana, la più semplice è la più antica, con melanzane, olive verdi, sedano e salsa di pomodoro, quella catanese che prevede l’aggiunta dei peperoni, l’agrigentina anch’essa con i peperoni ma con le olive nere e non verdi, quella messinese, molto simile alla palermitana, con i pomodori a pezzi invece della salsa.; quella trapanese con peperoni, cipolla rossa, carote, pomodori tagliati a tocchetti e melanzane rotonde. Le patate, i pinoli, l’uvetta, le mandorle tostate possono essere presenti o meno nelle varie ricette.
Vi do la Ricetta della versione classica: tagliate a dadi quattro belle melanzane nere con tutta la scorza, mettetele in un colapasta, salatele abbondantemente, pressatele con un coperchio ed un peso e lasciatele così per qualche ora, in modo che perdano il loro liquido amaro. Affettate finemente 2 cipolle e soffriggetele in olio. Quando saranno trasparenti, unite 2 pomodori pelati, senza semi e tagliuzzati. Dopo qualche minuto alla salsa aggiungete 200 gr., di olive bianche in salamoia, tagliate a pezzi, 150 gr., di capperi dissalati, 2 cuori di sedano ben lavati ed anch’essi tagliati a pezzi. Aggiustate di sale e lasciate cuocere a fuoco basso. Passate un attimo sotto l’acqua corrente le melanzane, asciugatele e friggetele. Unitele alla salsa e cuocete ancora per qualche minuto. Completate con 1 cucchiaio e mezzo di zucchero ed un bicchierino di aceto di vino, mescolate e lasciate raffreddare. Se la mangiate l’indomani è ancora più saporita.”

Alessandra Verzera

 

Credits:

Ricerca storica e testi : Luigi Milanesi

Contributi: Francesca Poidomani, Valentina Coppola

Foto: Fulvio Papagallo,  archivio e web

L’Ambasciatore del Gusto Francesco Arena a GeCo, la rassegna sulle nuove frontiere del gelato, dal 12 al 14 giugno a Milazzo

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Francesco Arena (1) Il bakery chef messinese, Ambasciatore del Gusto, Francesco Arena parteciperà a Gelato Contemporaneo, la rassegna sulle nuove frontiere del gelato che si svolgerà a Milazzo dal 12 al 14 giugno. GeCo nasce come piattaforma di sperimentazione sul mondo del gelato, che è in continua evoluzione. Gelatieri, chef, artigiani, food designer, profumieri, distillatori e produttori di macchine innovative si confronteranno nella 3 giorni della rassegna.

Arena-02Sono due gli appuntamenti a cui prenderà parte Francesco Arena.

Il 13 giugno sarà presente all’Eolian Ristorante Milazzo, in occasione della cena evento ideata per abbattere i confini della cucina convenzionale e guidata dallo chef di casa, Davide Guidara, alla quale saranno presenti anche Simone De Feo della Cremeria Capolinea di Reggio Emilia, miglior gelatiere 2017, Rosario Leone D’Angelo, di Sikè Gelato Milazzo, Gianfrancesco Cutelli, della gelateria De Coltelli Pisa, miglior gelatiere 2015, Luca Bernardini della gelateria Fuori dal Centro Lucca, food designer, Ida Di Biaggio presidente Conpait Gelato, e Giovanna Musumeci, condirettrice di Sherbert Festival.

locandina eventoFrancesco Arena, per la cena evento, preparerà una grande pagnotta che verrà messa a centro tavola. “Con questo pane – ha affermato il bakery chef – voglio dare l’idea della condivisione”. Il 14 giugno, Arena sarà protagonista dell’evento più bello, quello dedicato ai bambini. I piccoli partecipanti avranno la possibilità di divertirsi con le mani in pasta. Il maestro Arena, membro del prestigioso Richemont Club, insegnerà ai piccoli alunni come si preparano le brioche di grani antichi siciliani. Previsti anche laboratori per la preparazione del gelato artigianale destinati ai più piccoli e degustazione guidata per i più grandi. La giornata sarà allietata da spettacoli circensi e di giocoleria e dalla lettura teatrale del libro “La ricetta della strafelicità” di Matteo Razzini. Si tratta di un grandioso evento benefico finalizzato alla raccolta di fondi a sostegno delle attività di Gigliopoli – la città dei bambini spensierati.

L’ogliarola messinese: l’ulivo della tradizione dei Nebrodi. Intervista al giovane imprenditore Placido Salamone.

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ogliarolaEsiste in tutta Italia ed in particolare nel Meridione una sorta di sacralità dell’ olivo, questo perché l’olio è molto più di un prodotto, più di una tradizione. È qualcosa di talmente legato alla storia del Mediterraneo che per noi è un modello culturale, ma è anche un sorprendente patrimonio genetico fatto di varietà, ossia di coltivazioni da salvaguardare e perpetuare.
In questo ambito la Sicilia mostra dei dati sorprendenti. Il panorama varietale siciliano si caratterizza per la predominanza di ben otto cultivar (Biancolilla, Cerasuola, Moresca, Nocellara del Belice, Nocellara dell’ Etna, Ogliarola Messinese, Santagatese, Tonda iblea).le quali, assieme raggiungono l’ 80% di tutti gli ulivi coltivati nell’ Isola. A completare il germoplasma indigeno siciliano contribuiscono circa altre venti sottospecie minori, le quali, anche se scarsamente importanti in termini di diffusione territoriale e di quantità prodotte, rivestono una considerevole importanza per la tutela della biodiversità biologica.
L’ogliarola messinese. Conosciuta anche come passalunara, terminisa, o nostrale, questa pianta occupa secondo i più recenti dati ISTAT il 30-35% del territorio della provincia di Messina dominando incontrastata nella fascia tirrenica dell’ areale dei Nebrodi, dove in associazione alla santagatese costituisce la tradizione olearia di queste zone. Una tradizione illustre sebbene rivalutata solo in parte. Per capirne di più andiamo a Castel di Tusa per incontrare Placido Salamone, un giovane imprenditore che da anni gestisce in maniera innovativa l’ azienda agricola di famiglia “Casaleni”.

paneolioCosa caratterizza l’ogliarola messinese in particolare?

Sebbene la nostra tradizione imprenditoriale sia molto antica è da circa una decina anni che come azienda abbiamo avviato una radicale trasformazione di questo nostro comparto produttivo. Il nostro uliveto impiantato 140 anni fa si estende su terreni in buona esposizione affacciati sulla costa. in un territorio di grande tradizione olearia. Gli ulivi sono adagiati su lievi declivi, dove, le favorevoli condizioni pedoclimatiche, la giusta esposizione, l’aria pulita, unite alla natura del terreno, creano il microclima ideale per la loro coltivazione. Circa il 70% sono piante di ogliarola messinese dalla buona adattabilità e resistenza alla siccità, dal portamento espanso e pendulo ed una chioma folta e compatta.
La gestione di un simile uliveto richiede degli accorgimenti particolari. Il rendimento produttivo è si elevato ma altalenante, per questa ragione simili impianti devono sorgere su buone falde acquifere per avere un discreto rendimento oppure irrorati con moderni impianti a gocce. Anche la natura del frutto richiede cure particolari. Generalmente di dimensioni discrete, le olive ogliarola messinese sono classificabili come olive da mensa e da olio. Tuttavia il frutto mostra una sensibilità eccezionale agli attacchi della mosca olearia ed alle avversità climatiche. La raccolta quindi deve essere a scalare, programmata cioè in base alle condizioni pianta per pianta. I risultati però sono eccezionali.

olioMa in qualità di imprenditore come ha inteso sviluppare le potenzialità di questa coltivazione?

 Inizialmente lo sforzo è stato dedicato alla produzione di un olio extravergine d’oliva dalle elevate caratteristiche organolettiche che rispecchiasse le caratteristiche di questa varietà. Un obiettivo raggiunto nel giro di due anni con la linea “ San Costantino Gold” impreziosita nella misura del 10 % dall’olea silvestris. Delicatissimo e ricchissimo di polifenoli,quest’olio rientra nella categoria dei fruttati leggeri dal sapore dolce con sensazioni leggerissime di piccante e amar. Ce ne serviamo anche come base per l’artigianato alternativo e per la biocosmesi.

 

Anche il cioccolato di Modica riceve la certificazione IGP

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Probabilmente era solo questione di tempo prima che il cioccolato di Modica venisse insignito del prestigioso marchio IGP, di Indicazione Geografica Protetta.
La notizia risale a qualche giorno fa, quando la Gazzetta Ufficiale ne ha formalizzato i termini, non solo fregiando l’eccellenza modicana con il noto marchio della Comunità Europea, ma anche riconoscendo un iter di produzione unico nel suo genere e che la tradizione ragusana custodisce gelosamente.

Infatti, per chi non avesse ancora avuto il piacere di assaggiarlo, il cioccolato di Modica ha una storia diversa da raccontare rispetto a quello che tutti comunemente conosciamo, ed è in essa che si racchiude il suo fascino.
Dal sapore unico e dalla tipica consistenza al palato, caratterizzata da un’inconfondibile granulosità zuccherina, il segreto dell’antica ricetta modicana consiste nella particolare tecnica di lavorazione risalente, secondo la tradizione, agli indigeni messicani. Giunta in Europa e quindi in Italia nel XVII secolo, tale tecnica mise le sue proficue radici nel ragusano dove trovò la sua fortuna.

Definita lavorazione “a freddo”, ciò che differisce la ricetta modicana dall’usuale preparazione del cioccolato, è appunto l’utilizzo di una temperatura che non superi i 40 gradi, non permettendo quindi lo scioglimento dei cristalli di zucchero che ne rappresentano la caratteristica peculiare alla vista e al palato. Una specialità che la ricetta originaria vuole aromatizzato con vaniglia e cannella, ma che in seguito, col trascorrere dei secoli e fino ai giorni nostri, si è prestato ad innovative variazioni speziate che, tuttavia, non ne sviliscono l’essenza primitiva.
In base a quanto specificato in Gazzetta Ufficiale risulta chiaro che non potranno più esserci aziende che producano in altre città, in quanto l’area di produzione “è rappresentata dall’intero territorio amministrativo del Comune di Modica”. Una volta nel mercato poi, il prodotto dovrà presentare caratteristiche ben precise: ovvero “a parallelepipedo rettangolare con i lati rastremati a tronco di piramide. Peso non superiore a 100 gr. Pasta di colore marrone con evidente granulosità per la presenza di cristalli di zucchero all’interno del prodotto. Visibile eventuale affioramento del burro di cacao sulla superficie esterna. Caratteristiche organolettiche: gusto dolce con nota di amaro. Percezione di granulosità o sabbiosità. Buona fusibilità in bocca e struttura croccante”.
Per rimanere in tema, quella delle certificazioni a marchio DOP e IGP è una storia che riempie di orgoglio l’Italia, e che, negli ultimi tempi, vede la Sicilia tra le regioni italiane con più riconoscimenti, ben 30 prodotti all’appello, di cui 17 Dop e 13 Igp, tra cui adesso figura anche il cioccolato modicano. Solo tra gli Igp si annoverano: l’arancia rossa di Sicilia, l’Uva da tavola di Canicattì, l’Uva da tavola di Mazzarrone, il Limone Interdonato di Messina, il Limone di Siracusa, la Pesca di Leonforte, il Cappero di Pantelleria, la Carota novella di Ispica, i Pomodorini di Pachino, il Salame di Sant’Angelo, il Sale Marino di Trapani e l’olio di Sicilia.

Una bella storia da raccontare e da ascoltare, anzi dolce… Proprio come il cioccolato.

Serena d’ Arienzo 

Tommaso Iacono: la tradizione siciliana vola a Parigi

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iaconoslideluiTommaso Iacono è un giovane cuoco di Realmonte ( Ag) che da qualche tempo è diventato Tommasò Iaconò, à la mode francaise. Il 27enne infatti da qualche tempo lavora a Parigi: con un obiettivo importantissimo.

Iacono, da Realmonte a Parigi è un gran cambiamento…

Si,enorme. Parigi è una città che offre molte opportunità e che è soprattutto basata sulla meritocrazia. Da quando sono qui sono cresciuto tantissimo sia professionalmente che umanamente.

Esiste sempre l’eterna lotta tra italiani e francesi per stabilire chi produca la migliore cucina. Lei che le confronta giornalmente che opinione ha?

Certamente i francesi sono molto conservatori e di conseguenza difendono le loro cose. Noi in italia abbiamo i migliori prodotti del mondo e la migliore cucina in termini di stile di vita ( la nostra dieta mediterranea , nda ) però devo dire che in termine di marketing si vendono molto bene cosa che per noi italiani è un po’ dura da fare . Per i francesi il contenitore è importante come il contenuto, mentre invece noi italiani ci concentriamo sul contenuto tralasciando il contenitore.

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La sua scelta di lavorare a Parigi, che è città per molti versi non facile, che obiettivo nasconde?

Tutte le citta non sono facili se non hai degli obiettivi. Quando ho lasciato la mia terra con destinazione Milano è stata durissima, ma avevo degli obiettivi quindi sono riuscito a non farmi inghiottire dallo stress e dalla vita frenetica.A Parigi invece ho come l impressione di essere al mio posto: certo ho sofferto anche qui ma è una città che calza a pennello con la mia filosofia e i miei ideali e soprattutto qui apprezzano realmente la cucina italiana.iaconodolce

Ma i francesi, ed ancor meglio i parigini, apprezzano la cucina italiana “non modificata” ?

Come detto in precedenza si : adorano la cucina italiana, ma la cosa che mi da ai nervi è che adorano una piccola parte dell’ universo gastronomico italiano, e cioè quello che per noi è di bassa qualità o troppo grasso ( colpa anche dei nostri immigrati italiani che nel dopo guerra si sono trasferiti nella capitale abituando i parigini ad una gastronomia diversa e adattata ai loro gusti , nda). Ma io e tanti altri colleghi stiamo cercando da qualche tempo di rieducare il palato dei parigini e non solo.iaconopiatto2

Cosa prediligono tra primi e secondi?

Soprattutto i primi piatti quali carbonara, lasagne, ravioli etc. Cose che per loro sono difficili da realizzare a casa. Ma  il piatto forte è senz’altro la pizza.

I loro dolci però sono migliori dei nostri….

Non per niente sono molto bravi nelle basi e nella decorazione,  ma a livello gustativo non c’è neanche paragone. Come per noi italiani è persistente lo zucchero, per loro la base del dessert è il burro .E vogliamo mettere la delicatezza e l espressione di un cannolo siciliano?Dal momento in cui hai assaggiato questo nella tua vita non esisteranno più paragoni.iaconopiatto1

Lei che tipo di cucina propone?

Una cucina semplice in cui il prodotto di qualità conta nel piatto ma è anche bello da vedere. La mia cucina è molto “provocante”, con azzardi improbabili e gusti decisi. Basti pensare al polpo cotto nel sugo d’ agnello o allo gnocco in osmosi di ricotta con essenza di tartufo rucola e polvere di guanciale.iaconocannolo1

C’è un piatto tipico della sua zona d’origine che lei ama far conoscere?

Sicuramente il cannolo siciliano;  poi ultimamente sto facendo scoprire le sarde alla beccafico (sardine fancie façon becafico ), la gramigna con sugo di spada,  melanzana e mentuccia e la pasta con le sarde. Cerco sempre di far vivere ai miei commensali un viaggio in Sicilia raccontando la mia storia con questi piatti della tradizione.

Che progetti ha per il futuro?

Tantissimi : ma per adesso mi limito a lavorare duro affinché possano realizzarsi il più presto possibile.

 

Alessandra Verzera

Editoriale. Il web, i gruppi di Facebook ed il massacro della tradizione gastronomica siciliana.

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cornerIl web è una sorta di porto franco, e questo è ormai un fatto tristemente noto. Una specie di speaker’s corner virtuale in cui ognuno, un giorno come un altro, si veste dei panni che vuole e si mette a pontificare, spesso stravolgendo o riscrivendo fatti ed avvenimenti, parlando alle masse anche di argomenti alle stesse masse sconosciuti, facendo quindi facile proselitismo. Questo, recentemente,  accade con maggior frequenza rispetto alla cucina, all’enogastronomia: un filone aurifero per molti in danno della vera tradizione.  Questo accade precisamente su Facebook. che negli ultimi anni ha laureato una congerie di tuttologi improvvisamente investiti e fagocitati da un delirio di onnipotenza mediatica fuori da ogni controllo . Si assiste sul web a diatribe molto accese tra postini e medici, in cui il postino contesta il medico su fondamenti di medicina e chirurgia. Non se la passano meglio gli avvocati, contestati su articoli dei codici da panificatori e pasticceri. Insomma, un melting pot pericolosissimo in cui si spacciano sempre più  frequentemente false notizie e falsa cultura.

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Da alcuni giorni si è accesa una polemica rispetto ad un gruppo in modo particolare: “Amanti del cibo siciliano, Sicil- eat” i cui amministratori evidentemente poco si curano di diffondere un messaggio culturale, più preoccupati di dare spazio a chiunque, dimenticando forse che il patrimonio gastronomico è fortemente identitario di un popolo e ne costituisce parte della storia. Io, come del resto anche molti altri, non riesco a tacere dinnanzi allo scempio della tradizione gastronomica siciliana. Così, dopo avere preso visione di alcuni “piatti” proposti da diversi membri di questo gruppo, nel totale assenso degli amministratori, mi sono sentita personalmente offesa nel leggere di un raduno di questi “intenditori di cucina siciliana” presso una delle sedi di rappresentanza più prestigiose del Comune di Palermo, Villa Niscemi.  Una sorta di fiera, un “portaparty” – come usa dire oggi – con i membri invitati a portare qualcosa da casa da gustare poi tutti insieme. Insomma, una sorta di festa privata tenuta però in una sede di rappresentanza della città di Palermo. sicilylocandinaA prescindere dai titoli e dalle credenziali dei promotori, appare singolare se non bizzarro, che in siti di tale rilevanza culturale vengano allestite fiere in cui possa essere introdotto cibo dall’esterno in barba a qualunque disposizione in materia igienico sanitaria per la manipolazione e la somministrazione di generi alimentari al pubblico: insomma, se andate a Villa Niscemi dove questo gruppetto si radunerà a giorni, potrete piluccare cose maneggiate da non si sa chi, non si sa come, non si sa in che ambienti. L’evento infatti non è riservato ai soli iscritti al gruppo, ma è pubblico. Non mancano ovviamente gli sponsor, come un articolo di stampa tende ad evidenziare. Vi riporto il link, che è una lunga intervista ad una tale Enza Accardi, che si definisce caporedattore pur non risultando iscritta a nessun albo professionale che preveda una tale carica, ovvero quella di giornalista, e pur non essendo a capo di alcuna testata giornalistica, nè a fianco di alcun direttore responsabile.

http://siciliainformazioni.com/cettina-vivirito/808548/villa-niscemi-raduno-amanti-del-cibo-siciliano-intervista-alla-food-blogger-enza-accardi

Nell’articolo, la cui la versione integrale potrete leggere cliccando sul link sopra, si legge : ” Raduno degli Amanti della cucina siciliana, progetto culturale e gastronomico nato su Facebook per iniziativa di Maurizio Cardella e Enza Accardi che ha come scopo quello di tradurre in “reali” incontri virtuali di persone accomunate dalla passione culinaria. Al centro di tutto i sapori, i profumi e gli odori di una cucina che unisce diverse culture, come quella siciliana.”

Ed ancora :  ( —-) “ Si proseguirà con eventuali domande e curiosità da parte dei partecipanti, un breve dibattito culinario e via al buffet ricco di degustazioni, anche perché ai partecipanti è concesso portare una propria delizia da esporre e lasciare degustare agli invitati. Nel corso del pomeriggio si faranno i sorteggi dei premi messi in palio, la serata si concluderà alle 20,00 circa.”

Ed anche : (—-) ” “Sono una normalissima persona, una mamma e moglie con una grande passione per la pasticceria innanzitutto, ma anche per la cucina. Fino a pochi anni fa lavoravo con tanto di tacco, trucco e parrucco, fino a quando per la crisi ho perso il lavoro. Pur dandomi da fare per cercare un altro lavoro, purtroppo sono stata penalizzata dall’età, quindi ho deciso di reinventarmi e ricominciare tutto da capo, con grande sacrificio, passione ma anche divertimento, grazie alla cucina che è la cosa alla quale più tengo. Quindi piano piano, grazie anche al gruppo , al supporto dei followers, a chi ha creduto che davvero si può rinascere come la fenice dalle proprie ceneri, ho cercato di trasformare la passione in lavoro.”.

Questo dice Enza Accardi a chi l’ha intervistata: un passaggio in cui c’è qualsiasi risposta uno possa cercare. La cucina come rifugium peccatorum, come via d’uscita, come alternativa. Usatela pure la cucina, ma fatelo bene: almeno questo.

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E quindi, a  fronte però di piatti quantomeno discutibili, orgogliosamente pubblicati sul gruppo – gruppo in cui peraltro vige il divieto assoluto di critica, pena l’espulsione immediata quale regola non scritta – questa foodblogger parla di corsi di cucina, di libri, di iniziative culturali. Manifesti programmatici che però non hanno poi riscontro quando si visita il gruppo e si ammirano i lavori degli iscritti: spesso orribili, maosannati dagli amministratori, che sono gli stessi che mettono sul tappeto iniziative culturali, che tengono corsi di cucina, che scrivono libri

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e tengono conferenze . La motivazione di tanto supporto è che chi pubblica i propri piatti non è un professionista della ristorazione, ma una madre  di famiglia, uno studente, uno che ha questo hobby. E allora, prima ancora che tenere conferenze pubbliche e  fare corsi di cucina presumo a pagamento, perchè non indottrinare per primi i propri iscritti migliorandone le conoscenze ed evitando contestualmente il diffondersi incontrollato di sfregi, veri e propri oltraggi,  alla cucina siciliana ?

 

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Perchè non insegnare qualcosa, tanto più che Maurizio Cardella è uno chef? Come può uno chef assistere indifferente al maltrattamento sistematico e persuaso della cucina tradizionale e non ?  Perchè non dire, ad esempio, che la nespola non è un frutto autoctono della Sicilia ma che è  Giapponese, e raccontare magari come sia arrivata in Sicilia? O perchè non dire che la Carbonara non è tradizione siciliana ma che, in ogni caso non si può preparare aggiungendovi la maionese? E che dire dello Speck? Che tutto è tranne che siciliano.

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E invece no, nessun suggerimento:  quando qualcosa desta se non altro curiosità o perplessità,  viene fuori  un’altra realtà tipica dell’epoca dei social con la quale si liquida tutto : l’invidia. Laddove uno, a giusta ragione e con credenziali valide e sufficienti, muova anche sia pure solo sommessamente un appunto, viene tacciato di invidia. L’invidia è il morbo, il virus, che infetta i social.

Naturalmente prima di sedermi a scrivere ho inviato all’ Ufficio Stampa del Comune di Palermo, in data 28 aprile c.a.,  una richiesta di chiarimenti circa le modalità  e i criteri di attribuzione di una sede come Villa Niscemi – che, lo ricordiamo, non più tardi di un anno fa ha ospitato teste coronate e pranzi di Stato –  a privati cittadini, persone sicuramente passionali ( ma non appassionate) ma non per questo titolate a diffondere principi di cultura enogastronomica siciliana o italiana in generale, nè a tenere conferenze et similia. Del resto le immagini parlano da sole e qualcosa di certo suggeriscono. Dall’ufficio stampa del Comune non è pervenuta, ad oggi ed al momento della pubblicazione,  alcuna risposta.

Alessandra Verzera

 

 

Ricerca iconografica : Vins Randisi Iacono

NB: Le foto sono di proprietà dei rispettivi autori, e sono qui adoperate a solo scopo divulgativo.

La foto dei bucatini con le sarde in copertina è dello chef Peppe Giuffrè

Bye Bye Blues. Una stella che ne vale due.

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byeinsegnaEro stata al Bye Bye Blues nell’ormai lontano 2008 e, benchè già allora alcuni dettagli lasciassero presagire un ‘energica voglia di emergere, non ne ero rimasta particolarmente impressionata.  Era però un locale del quale a Palermo si iniziava a parlare con una certa e crescente insistenza, anche perchè era uno dei pochi con una donna al posto di comando ad avere ricevuto diversi riconoscimenti. Naturalmente il locale era molto diverso da quello che è oggi, non soltanto per la scelta dei piatti, ma anche per il decor. Due cose non sono cambiate di sicuro nell’arco di dieci anni, e cioè la professionalità del personale –  impeccabile oggi come allora – e la piccola pasticceria secca, in assoluto la cosa che dieci anni fa gradii di più e che anche in questa recente occasione ho gradito immensamente.

byemonitorMa la storia del Bye Bye Blues, che si trova a Mondello ma fuori dal brulicare di Valdesi e del borgo,  ormai è lunga quasi un trentennio, essendo nata in assoluta sordina nel 1991 da un sodalizio professionale tra la chef  Patrizia Di Benedetto ed il sommelier  Antonio Barraco: una scommessa azzardata che i due hanno vinto a mani basse, ma non senza sacrifici, realizzando non soltanto uno dei migliori ristoranti di Palermo e provincia, ma un legame affettivo  che li ha portati al matrimonio.

byeinterni1Sembra quasi la trama di un film a tema la storia di questo locale, portato avanti con assoluta determinazione ed anche contro ogni opinione pessimistica rispetto al successo inseguito. Ma Patrizia e Antonio hanno saputo “leggere” la realtà della ristorazione palermitana di quegli anni. Una ristorazione omologata, uguale a sè stessa, priva di voli pindarici e di spazi creativi, fatta di confortanti e classiche sicurezze. Erano i tempi in cui stelle in Sicilia si vedevano solo nel cielo, ma in cui nasceva la voglia di qualcosa di diverso. I palermitani volevano sperimentare, provare, diversificare. Questo hanno percepito i due del Bye Bye Blues. Una ventata di aria nuova ha dato modo a questa donna di esprimere un estro nuovo, diverso, improntato alla materia prima di alta qualità e – soprattutto – locale.

byestellaNel 2010 e dopo vari riconoscimenti e menzioni, arriva la prima stella Michelin.  Vent’anni di impegno culminati in un conferimento prestigioso che non costituirà tuttavia un punto di arrivo, bensì un ulteriore sprone verso nuovi traguardi. Ed immagino che non tarderanno neanche tanto ad arrivare.

byeantipastoNoi siamo in due, e ci accomodiamo nella sala in fondo al locale. Il nitore e la pulizia di ogni ambiente sono evidenti, così come la qualità dei tovagliato e la sobrietà della mise en place. Bicchieri splendenti e posate adagiate su piccoli stand completano un’ambientazione consona al livello del locale. Le scelte cromatiche degli arredi, tendenti ai toni scuri, creano un mood rilassante in contrasto con le tinte neutre dei tovagliati ed il bianco totale delle pareti, “riscaldate” da splendide foto in bianco e nero. Il tutto è accentuato da un’illuminazione perfetta. Tutto il locale è parquettato, e se un piccolo appunto posso muovere è che lo scalpiccìo del personale – quando non adopera calzature con suole di gomma – risulta un po’ fastidioso. Un’occhiata al menù ci orienta senza particolari difficoltà verso quelle che sarebbero state le nostre scelte. Ma i fuori menù catturano ancora di più il nostro interesse. Così, la scelta cade su un antipasto che è la fantasiosa rivisitazione di un cocktail di gamberi: gamberi scottati su crema di lattuga, salsa di ricci di mare con cialda croccante.

byestarterNell’attesa veniamo sorpresi dall’entreè  costituita da alcuni amuse bouche tra i quali spicca ( e colpisce) un micro panino con panelle e crocchè – della dimensione di una moneta da due euro o giù di lì . Un piccolo capolavoro. Ottimo anche il  polpo su salsa allo zenzero,  nostalgico e sentimentale lo sfincionello tenacemente abbarbicato alla più antica tradizione palermitana. byegrissiniArriva anche il pane ed un vassoio di grissini di mais. In degustazione anche un olio della ditta Barbera: il piacere di potere intingere il pane nell’olio è impagabile. Lo facciamo senza remore per scoprire una gamma di gusti gradevolissimi dall’eco retrò delle antiche merende di un tempo.

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L’attesa dello starter è abbastanza breve. E’ eccellente.  Ottime le consistenze e la gamma di gusti che si sprigiona in un crescendo organolettico di alta qualità e di pieno soddisfacimento. Il gusto complessivo è avvolgente e vellutato, ed è una vera delizia nel suo insieme. L’ho definito una rivisitazione del cocktail di gamberi perchè così mi è stato presentato dal personale, ma il suggerimento che posso fornire è di dimenticare totalmente il cocktail di gamberi a cui siamo stati abituati negli anni ’80: questa è avanguardia, che rinuncia alla nota acidula delle salse a base di maionese in favore di un blend fantasioso ed innovativo che non aggredisce mai le papille.

byecavatelliIl mio primo piatto rimane quello che mi ha subito colpita leggendo il menù: cavatelli in salsa di mare e schiuma di ricci.  Detto così sembra semplice, ordinario. Ma la delizia di questo primo piatto è persino difficile da tradurre in parole. Intanto sfatiamo un piccolo luogo comune: non è vero – o perlomeno non è sempre vero – che le porzioni di un ristorante stellato siano quasi degli assaggini. La mia porzione di cavatelli è di tutto rispetto, normale. La salsa è strepitosa, così come sorprendenti sono i riccioli di calamaro che costituiscono parte integrante della salsa di mare. Un piatto sorprendente, gradevolissimo, frutto di abbinamenti classici riproposti in chiave moderna.

Il mio commensale opta invece per il primo piatto fuori menù –  ravioli al nero – e me ne parla benissimo.

 

byebyetarteIl pane con l’olio, i grissini, l’entreè,  l’antipasto ed il primo non lasciano spazio al secondo piatto: anche perchè voglio assolutamente godere del dessert, dato che proprio per la sua pasticceria questo locale ha ricevuto uno dei suoi primi riconoscimenti già nel lontano 1997. E la buona notizia è che questa “fama” perdura invariata:  i dessert sono effettivamente eccellenti, segno di una continuità che costituisce un riferimento certo per la clientela e che diventa uno dei trade mark del locale. Ma prima ci attende il pre dessert: una mini apple tart su salsa alla vaniglia. Una pallina di squisitezza che predispone il palato al dessert vero e proprio e a ricevere  il gusto dolce.

byebrestIl Paris Brest con crema inglese alla vaniglia, fragoline e gelato di menta e zenzero del mio commensale è un premio per chiunque ami i dolci. Non legato in alcun modo alla tradizione siciliana, conferisce al locale  quel volo internazionale verso ricercatezze difficili da reperire e che, in questo caso, ci porta in Francia- patria indiscussa della grande patisserie –  ed alla felice invenzione di  Louis Durand che creò quel dolce per commemorare un evento sportivo, ovvero la corsa ciclistica da Parigi  a Brest. La sua forma circolare, a ciambella con il buco al centro, evoca infatti la ruota di una bicicletta.

byecrepeRimango in Francia anche io con uno dei grandi classici che abbiamo ormai felicemente adottato e fatto nostro : scelgo infatti la Crepe flambè, cremoso al limone, frutti di bosco e sorbetto di cioccolato bianco. Mi impensierisce il sorbetto al cioccolato bianco dato che, troppo spesso, ciò che è realizzato con questo ingrediente mi risulta stucchevole e finisce con il nausearmi. Ma ho intuito felici contrasti di note acidule ed agrumate che avrebbero ben bilanciato la consueta dolcezza del cioccolato bianco. In effetti il blend ha funzionato benissimo e secondo le aspettative. Una piccola nota riguarda la temperatura alla quale mi è stata servita la crepe: era fredda, laddove io l’avrei preferita tiepida, e neanche la flambatura – realizzata direttamente al tavolo – ha contribuito a renderla meno algida. Una questione di gusto personale che non detrae niente all’ottima realizzazione di un dessert dal sapore un po’ retrò ma sempre gradito.

byezuccheriLa cena si conclude con il caffè, insieme al quale consumiamo anche dei dolcetti secchi: di particolare interesse risultano dei tartufini che ci vengono gentilmente rimpiazzati una volta finiti. Sono davvero molto buoni. Insieme al caffè arriva anche un assortimento di 5 zuccheri, di cui uno – interessantissimo – alla liquirizia. Il costo della mia cena – che comprende gli antipasti, due primi piatti, due dessert, l’acqua, due calici di Riesling ed il caffè, è pari ad euro 115.00, che mi sembra ottimo sia in rapporto alla qualità – sia del cibo che del servizio – sia in rapporto ad altri locali anche di categoria inferiore.byemenù

In definitiva, il Bye Bye Blues è intanto un modello di tenacia e di costanza da parte di chi decide di fare ristorazione  (e di farla sul serio)  e che, a mio parere, verrà ben presto premiato con ulteriori riconoscimenti. E’ un locale accogliente, moderno ma non minimal, che esprime una cucina di alto livello giocata sul prodotto locale e di eccellente qualità. Il personale è cortese ma non ingessato, cordiale e molto attento senza mai essere ingerente.  E’ sicuramente adatto a cene romantiche e di lavoro, ma non a gruppi numerosi o a famiglie con bambini piccoli.  Per via di un corridoio piuttosto stretto potrebbe risultare di difficoltosa accessibilità a soggetti diversamente abili e con ridotta mobilità. Il rapporto qualità/prezzo è tra i migliori della categoria.

 

Alessandra Verzera

 

Scheda: 

Patron : Patrizia Di Benedetto, Antonio Barraco

Chef : Patrizia Di Benedetto

Coperti: > 60 (in) –  NA (out )

Range:  Alto

Categoria: Ristorante Gourmet

 

Ranking (*)

Location: 4

Cibo: 5

Carta Vini: 5

Presentazione: 4

Servizio: 5

Mise en place: 4

Atmosfera: 4

Allestimenti: 4.5

(*) Legenda :

1 = pessimo
          2 = scadente
          3 = sufficiente
         4 = ottimo
            5 = eccellente.

 

Ecco a voi “Le Cesarine”, il Social eating dal sapore di tradizione

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Non è la prima volta che guardo all’aspetto mediatico del cibo e delle infinite sfumature della cucina 2.0: dai molteplici format televisivi, al food blogging, dalle recensioni on line al food photography. La dimensione calda e intima della cucina e della tavola, della convivialità e della famiglia, sembrano essersi un po’ sbiadite ormai sotto obiettivi e riflettori.

cooking-classTuttavia, nonostante le numerose sfumature di fiction che si sono alternate negli ultimi anni, quello del cibo e del patrimonio eno-gastronomico nostrani risultano essere tutt’altro che un fenomeno mediatico, bensì un fattore identitario che l’italiano medio rinnova quotidianamente e che non cessa mai di alimentare. Infatti, gli italiani parlano sempre di cibo, lo fanno anche a tavola, perché esso rappresenta quanto di più vicino alla famiglia, ai ricordi e alle proprie radici.

A metà strada tra la realtà di internet e quella del focolare, c’è il fenomeno de “Le Cesarine”, fortunato caso di Social eating in cui le protagoniste non sono altro che le donne di casa, ‘cesarine’ appunto nella tradizione emiliana, che del mattarello hanno fatto la propria bacchetta magica, stendendo sottilissime sfoglie di pasta fresca e riunendo la famiglia a tavola la domenica.
Ma quanto c’è di social in tutto questo? Proprio il fatto che le cesarine, cuoche (per la maggior parte) e cuochi amatoriali, mettano a disposizione il loro menù e la propria casa su piattaforme on line, per ospitare commensali vogliosi di scoprire le ricette della tradizione locale.
Infatti, è l’amore per la tradizione del territorio ciò che distingue “Le Cesarine” dagli altri format di home restaurant, tanto da essere selezionate, come si legge sul sito, da “esperti conoscitori delle tradizioni gastronomiche regionali per garantire l’autenticità delle loro Esperienze culinarie e diffondere i veri piatti tipici della cucina italiana”.

per-sito-cesarineAl centro di tale ambizioso progetto, vi è prima di tutto l’apertura al grande pubblico di internet della cucina caratteristica locale e delle abitazioni sul territorio, rendendo la tavola casalinga il luogo privilegiato per assaporare e conoscere le infinite sfumature della cucina della tradizione regionale italiana. La convivialità e l’ospitalità, poi, sono l’unico vero strumento attraverso il quale è possibile infondere questo patrimonio che il mondo intero ci riconosce.

Nato nel 2004, il progetto de “Le Cesarine” deve il suo inizio a Egeria Di Nallo, sociologa dell’Università di Bologna, che fonda l’Associazione per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culinario gastronomico tipico d’Italia, e a Davide Maggi, esperto di web marketing, oggi Amministratore Delegato della società.
Presenti su tutto il territorio nazionale, le cesarine e i cesarini hanno il solo obbligo di proporre ai propri ospiti ricette e ingredienti del territorio di appartenenza, contribuendo attivamente a custodire un patrimonio e una tradizione inestimabili che in alcun modo devono essere dimenticati.
A beneficiarne sono tutti gli estimatori della buona cucina tradizionale, e in special modo i turisti, che vogliono godere dei sapori caldi e sontuosi della cucina italiana e mediterranea, quanto le nuove generazioni, il cui patrimonio culturale gastronomico è parte integrante della loro educazione, nonostante il sempre minor tempo trascorso a cimentarsi in cucina.

Secondo i dati Censis/Coldiretti, quello del Social eating è un fenomeno in continua crescita che vede il proprio successo non solo nell’accessibilità dei prezzi e nella qualità degli incontri conviviali, ma anche, come nel caso de “Le Cesarine”, di una formula di ristorazione on line che fa della tradizione il proprio cavallo di battaglia.

Serena d’Arienzo