“Me encantan las gambas a la plancha…”, lei cinguettava come una rondine mentre ritirava il suo piatto. Io, distante, non sapevo davvero perché mi trovavo lì. Lì dove? “Mercado de San Miguel” era il suo nome. E c’ero arrivato per caso, inseguendo un sogno ( Gi.Co.)
Ma cominciamo con ordine. Incappai in un giorno di primavera a Madrid: il sole era già alto, una dolce brezza, e nel cuore il desiderio ostile di andare a trovare Velàzquez, il grande ritrattista barocco. Non c’era fila per penetrare al Prado. Rapido, mi tuffo in quelle stanze, per ritrovare la pace della tradizione. Bramo solo quei buffoni e nani di corte: Pablo de Valladolid, o gli occhi talebani e disarmati del ritratto di Don Cristobal de Castañeda y Pernía, detto il Barbarossa. O come sostenere il pennello fiero e insieme l’insostenibile turbamento interiore che dà l’Infanta Margarita nel grande capolavoro “Las meninas”? Sì, la tradizione può turbare. Basta, esco. Cammino pensoso lungo il Paseo del Prado. E per insolenza m’infilo nel CaixaForum, una galleria d’arte post-moderna, gratis come tutte le cose moderne vili e miserabili. Ma c’è una mostra inaspettata: gli scatti di un secolo di Jacques Henri Lartigue, un maestro della fotografia, un genio dell’attimo fuggente.
A guardare quel mondo che non cambia, ma per nulla anacronistico, mi trafigge al cuore scorgere una donna misteriosa: ha un cappellino delizioso, un vestito chiaro e leggero. Guarda quelle foto con una sorta di malinconia esistenziale, di cui mi sono già innamorato. Si è accorta di me? No, per nulla; algida, inaccostabile e per questo anche più desiderabile. La chiamerò Florette, come l’ultima giovane moglie del mio fotografo Cupido. Ormai soggiogato, bado solo a lei. D’improvviso, decide di uscire. Traversa la grande strada, con le lunghe gambe nude. La seguo come un ladro. Dopo poco entra nell’Orto Botanico Reale. Si ferma incantevole davanti ad un prato folto di tulipani rossi Red Matador, ritti come i mulini di Don Chisciotte. Faccio appena in tempo a leggere la targhetta di una palma cinese, adorabile come la mia misteriosa compagna: trachycarpus fortunei. Ricordo le parole del vangelo apocrifo dello pseudo-Matteo: “desidererei, se fosse possibile, raccogliere i frutti di questa palma”. La mia ammaliatrice mi attira come una falena nel cuore della vecchia Madrid. Svolta in una piazzetta e si ferma davanti a una struttura di ferro fuso e vetro, un monumento al modernismo e delle nuove idee di quasi un secolo fa, reminescenza del mercato di Les Halles di Parigi.
Un’insegna, Mercado de San Miguel, e il piano basso con le sue ampie vetrate trabocca di frutta, verdura, pesce, pane. Un luogo d’incontro e di passeggio, prima di tutto. Poi, qui sembra che si possa fare la spesa quotidiana e degustare qualcosa nelle tante botteghe e magazzini.
Florette s’infila all’interno, tra la folla che la lascia passare, carezzata da una luce dorata, che attraversa le altissime navate. Si ferma ad un banchetto e le servono spiedini di olive e boquerones en vinagre, alici freschissime marinate in aceto bianco. In piedi, davanti ad un’altra “bodega”, bisbiglia qualcosa: da una solera spillano per lei una Manzanilla freddissima, sherry con un che di salato a cui è impossibile resistere. Rincorsa dal mio sguardo, compie il rito della tapa: sorseggia, e sorride. La festa continua, Florette si toglie quel suo cappellino avana, sciogliendo le sue chiome brune. Poi reclama qualcosa ad uno chef enorme e sorridente, che scompare dietro a un banco di pesce freschissimo. Cotti al momento, riporta a Florette dei gamberoni alla griglia, caldi e insaporiti con il sale grosso e appena un po’ di prezzemolo. “Me encantan las gambas a la plancha …”, furono le prime parole che sentii pronunciare a Florette, mentre si girò e mi guardo sorridente, con quei suoi occhi color cervone. Guardò proprio me. E a me venne da pensare a quello che Ernest Hemingway scrisse in una calda estate del 1929, proprio qui a Madrid: “Non c’è rimedio a niente nella vita”.
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