San Giovanni e la notte delle streghe

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lumache2“La lumachella de la Vanagloria, ch’era strisciata sopra un obbelisco, guardò la bava, e disse: – Già capisco che lascerò un’impronta ne la Storia”. In effetti Trilussa aveva ragione; la cucina romana ha nella lumaca vignarola, uno dei richiami più alti e significativi della tavola. I Romani dei secoli prima e dopo Cristo erano già ghiotti di lumache e ad un certo Fulvio Lappino  sembra vada il merito di aver trovato il modo di allevarle (Ro. D.)

Lo stesso Apicio inserisce nel suo De Re Coquinaria ( libro VII, XVIII) le ricette con le chiocciole fra i piatti prelibati. A quei tempi erano molto pregiate le lumache piccole, bianche, allevate nel Reatino. Altre, molto grosse, si facevano arrivare addirittura dall’Illirico. Altre ancora più grandi, tanto da avere gusci capaci di contenere dieci litri, arrivavano dall’Africa. In tempi più recenti, le lumache facevano la loro comparsa sulle tavole dei romani in occasione della celebrazione della festa di S: Giovanni, alla quale erano un tempo connessi molteplici riti, in una commistione di fede e superstizione. Questa festa prosegue ancor oggi anche se purtroppo sempre più stancamente. Un tempo, invece, era davvero molto sentita dai romani  che si riunivano a piazza san Giovanni in Laterano nella notte tra il 23 e il 24 giugno. S. Giovanni non è come molti pensano il santo delle streghe, ma il protettore contro i malefici e la stregoneria, e in suo onore si compivano le pratiche superstiziose di cui sopravvivono antichi riti propiziatori del solstizio d’estate: infiorate, falò o fuochi di S. Giovanni, raccolta della rugiada e dell’erba di S. Giovanni, ecc.

In quella notte, si riteneva che le streghe si radunassero per recarsi a Benevento, loro capitale, dove si sarebbe tenuto il grande sabba intorno ad un albero di noce. E si credeva di poterle vedere, nonostante la loro capacità di rendersi invisibili, semplicemente munendosi di un bastone con in cima una forcella. La Basilica Lateranense dedicata al Santo (che subì il martirio a causa di Salomè, seduttrice e strega ante litteram), la notte di San Giovanni diventava inaccessibile alle donne perché colpevoli della morte del Battista. Queste allora si fermavano sul sagrato della Basilica, dove la sera della vigilia si svolgevano particolari cerimonie religiose e in abiti maschili insidiavano ritualmente gli uomini chiedendo loro un compenso in denaro.

Questa era anche la notte in cui gli innamorati si scambiavano promesse di amore eterno e si aprivano al pubblico i bagni del Tevere, perché si credeva che in quest’occasione il santo conferisse virtù taumaturgiche alle acque.

Ancora alla fine dell’Ottocento era consuetudine per i romani ritrovarsi nelle osterie fuori porta San Giovanni, per banchettare con vino e lumache e spesso accadeva che gli osti per accontentare anche gli ultimi arrivati introducessero nei gusci vuoti delle chiocciole che altri avventori avevano vuotato e coscienziosamente succhiato poco prima. Lo sparo del cannone di Castel Sant’Angelo segnava la conclusione della festa. All’alba, il papa si recava a San Giovanni per celebrare la messa alla presenza  delle autorità religiose e politiche. E al termine della solenne funzione, dalla loggia del Laterano, lo stesso pontefice gettava monete d’oro e d’argento, scatenando la folla sottostante. Una processione religiosa attraversava poi le vie della città mentre nel pomeriggio il canto dei Secondi Vespri nella Basilica Lateranense chiudeva le celebrazioni. Durante i secoli la festa si arricchì e si fece più organizzata traducendosi dal 1891 in un festival della canzone romana. Il festival si svolse ogni anno arricchendosi con le sfilate di carri dei differenti rioni ed una crescente e chiassosa partecipazione popolare – provocando, tra le critiche, quella di Trilussa, secondo il quale per scrivere una canzone per la competizione bastava “la spighetta, er garofano coll’ajo, / er bacetto, le streghe e quarche sbajo”. La tradizione proseguì anche sotto il fascismo- dopo l’interruzione della prima guerra mondiale – coinvolgendo poeti, musicisti e cantanti. Oggi la tradizionale festa di San Giovanni sopravvive ancora.

In molti quartieri popolari è rimasta la tradizione di consumare in grande copia le lumache vignarole, un tempo portate in voluminosi cesti di vimini dalle venditrici ambulanti al grido di “Lumacheee! So de vigna le lumacheee! ” Le vignaiole mantenevano vive le lumache con pezzi di mollica bagnata e qualche foglia di vite.

Vi propongo la ricetta originale, che si tramanda fra le famiglie romane di generazione in generazione,  suggerita da Ada Boni

 

Lumache di vigna

In possesso di una certa quantità di lumache, preferibilmente raccolte nelle vigne si adunano in un grande recipiente- di solito si adopera un cesto di vimini- e si copre questo cesto badando che l’aria possa comodamente circolare. Nel recipiente o nel cesto si mettono due pezzi di mollica bagnata nell’acqua e spremuta e, avendone a disposizione, qualche foglia di vite. Si lasciano così in riposo le lumache per due giorni trascorsi i quali si procede alle prime operazioni.

Si versano le lumache in una grande catinella continente acqua con un pugno di sale e un bicchiere di aceto, e si comincia con le mani a mescolare le lumache, che sotto questo lavaggio caveranno abbondantissima schiuma. Si lavano a lungo rinnovando un paio di volte l’acqua con l’aceto e il sale, fino a che le lumache non faranno più schiuma. Si risciacquano allora accuratamente in acqua fresca, che si cambierà più volte, e poi si mettono le lumache in un piccolo caldaio con acqua fredda e si pone il caldaio su fuoco debole. Man mano che l’acqua intiepidisce le lumache incominceranno a metter fuori la testa dal loro guscio. E’ questo il momento di intensificare il fuoco affinché le bestiole possano passare a miglio vita senza rientrare nella loro casetta. Raggiunta l’ebollizione si lasciano bollire le lumache per una decina di minuti. Passano ancora nella catinella con acqua fredda per un ultimo lavaggio. Si prende ora un largo tegame di terraglia, ci si mette dell’olio e qualche spicchio d’aglio e quando l’aglio avrà soffritto si toglie via aggiungendo tre o quattro alici lavate, spinate e fatte a pezzetti. Si schiacciano le alici con il cucchiaio di legno e, appena sfatte, si mette nel tegame una quantità di pomodoro proporzionata alla quantità delle lumache, ricordando che per questa pietanza il sugo deve essere piuttosto abbondante. Il pomodoro va spellato, privato dei semi e fatto in pezzi. Quando la salsa sarà un po’ addensata si condisce con sale, abbondante pepe e un pizzico di foglie di menta dei campi, conosciuta a Roma col nome di “mentuccia”. Generalmente si usa rendere più piccante la salsa aggiungendo anche qualche pezzetto di peperoncino. Se la salsa fosse troppo spessa si diluisce con un pochino d’acqua. Si mettono nel tegame le lumache e si lasciano insaporire su fuoco moderato per circa mezz’ora.

Roberta D’Ancona

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