Pasticceria Antica Sicilia – Milano

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Sono da sempre contraria agli stravolgimenti in ambito gastronomico, e perciò sostengo con forza che se si vuol preparare il risotto alla milanese lo zafferano lo si deve assolutamente adoperare. Se no si otterrà magari un buon risotto, ma non quello “alla milanese”.Parto da un primo piatto “storico” per arrivare ad un dolce altrettanto “storico” : la “minna di Sant’Agata”, dedicata alla Santa Patrona di Catania ed al martirio da costei subìto mediante la mutilazione dei seni 

 

E’ in una traversa di Viale Abruzzi, a Milano, e precisamente in via Carlo Matteucci,  che in una mattinata tiepida di fine giugno mi imbatto in una sedicente pasticceria siciliana. Non me ne ero neanche accorta, ed il mio intento era quello di consumare un caffè prima di intraprendere un viaggio in auto. Entro e vedo un bancone colmo di rosticceria che sa di casa. Sposto lo sguardo ed incontro cannoli mignon, “minne di Sant’Agata”, bignè alla crema e cannoncini .

Alzo gli occhi verso un vassoio di “brioches col tuppo” e, un po’ più su, una scritta che dice “Pasticceria Antica Sicilia”. O gaudio, o gioia: mi approprio immediatamente di una brioche. Enorme ed ancora tiepida di forno. Ad onore del vero squisita e molto più grande e più buona di molte altre brioches consumate a Palermo ed in generale in giro per la Sicilia.

Dovendo recarmi in Veneto  invitata a pranzo dalla famiglia del mio fidanzato, penso che non potrei portare nulla di migliore e di più gradito di un grande vassoio di dolci siciliani,e così mi lancio ed ordino 35 pezzi mignon, variamente assortiti, e penso che se la brioche era stata una giusta premessa quei dolci avrebbero fatto faville. Trentacinque pezzi per trentacinque euro: un euro a pezzo mi sembra assai costoso, ma del resto siamo a Milano dove una pizzetta mignon la si paga anche un euro e ottanta centesimi a pezzo. Gongolante mi infilo in auto con il mio vassoio. L’attesa di quei dolci a fine pasto, anche un po’ enfatizzata, è un simpatico tributo alla mia presenza , così come il ricordo di viaggi tra le bellezze dell’isola ormai datati ed il ripescaggio di origini siciliane da parte di qualche componente di quella simpatica e bella famiglia. Così arrivano i liquori ed il caffè, ed i più giovani intorno al tavolo alla ricerca di cannoli. Il primo dolce tocca a me, che sono l’ospite. Sarò io ad aprire la danza delle calorie e del glucosio portando le altrui glicemie alle stelle. Ed allora mi riservo una “minna” ( seno, in dialetto siciliano, nda)  e la porto alla bocca: ma i denti non penetrano la glassa di zucchero. E’ dura come pietra.La capovolgo e comincio a mangiarla dall’interno, prevedendo la morbidezza del pan di spagna leggermente imbibito e circondato di marzapane e la cremosità della ricotta dolce lavorata. I miei ospiti mi guardano con sorridente compiacimento. Non so cosa avrei dato per evitarlo, ma ho messo  via il mio dolce dopo un solo assaggio : era immangiabile. Dinnanzi alla mia delusione qualcuno azzarda “ ma forse è colpa del frigo”. Io, che conosco cassate, cassatine, minne e quant’altro so che il frigo non c’entra nulla: quella paste sono vecchie di giorni. Nella migliore delle ipotesi sono eseguite malissimo e sanno di “industriale” nell’accezione negativa della definizione e senza nulla togliere ai pur talvolta ottimi prodotti industriali. Altri si incuriosiscono e provano il dolce che io ho appena ricusato: masticavano come fosse pane raffermo un dolce che, normalmente, va giù come una goccia di miele facendo ambire ad altri assaggi e ad ulteriori bocconi. Il marzapane sa di nulla, così come la ricotta, così come il pan di spagna: tutto racchiuso in una colata di glassa che avrebbe ben potuto essere di plastica.

Avremo miglior sorte con i cannoli? No: la speranza è durata cinque secondi, subito disattesa dallo stesso “gusto non gusto” della “minna”.

Non va meglio con i bignè farciti di “crema gialla” ( crema pasticcera, nda) : la crema ancora una volta è insapore, è grumosa e rappresa, dalla consistenza gommosa, collosa.  La pate a choux è dura, e delle due l’una: o è vecchia o la crema non ha ceduto nessuna umidità che ammorbidisse, impregnandolo, il delicato guscio. Una perifrasi inutile per dire che erano orribili anche i bignè.

Allora mi sono chiesta come mai quella pasticceria si chiami “Antica Sicilia” : forse antica nel senso che fanno i dolci come nell’antichità, quando  cioè nessuno o quasi sapeva farli, o perché le paste sono lasciate li ad invecchiare con indolenza divenendo alla fine antiche?

Il problema è che prima di tirar su insegne fuorvianti che rovinano un fiore all’occhiello della tradizione gastronomica di qualsiasi regione, si dovrebbe almeno imparare a copiare piuttosto che limitarsi a scopiazzare con i pessimi risultati fin qui illustrati. Se creare dolci come quelli siciliani che si mangiano a Palermo, o a Catania o a Messina, è sicuramente un’arte, anche il saper copiare lo è. E l’arte, come sappiamo bene, non è per tutti. Perciò, se proprio dovete recarvi in questa pasticceria, assaggiate le brioches, con il gelato o con la granita: è davvero l’unica cosa che valga la pena di mettere sotto i denti. Se invece volete un dolce siciliano, una cassatina o un cannolo, allora recatevi altrove.

Alessandra Verzera

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