I Valtellina – Milano

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Il ristorante ha un che di confortevole, a patto che piacciano le cianfrusaglie ammassate qui e li: sembra di essere arrivati in casa di una nonna che nel corso della vita abbia collezionato di tutto. Ma a me questo piace: comprendo però che ad altri possa non piacere. La scelta di pranzare in giardino è stata però dettata dalla bella stagione: il menu era tuttavia inadatto ai 38 gradi climatici .

Della cucina valtellinese ho sempre apprezzato smodatamente i Pizzoccheri: eppure quella volta non ho osato. Il caldo di Milano in quei giorni lasciava senza fiato. La frescura che pensavamo di trovare in giardino si è tradotta in qualche misero sprazzo di conforto laddove soffiava un po’ di vento ogni quarto d’ora a darci qualche istante di illusoria tregua. Però l’atmosfera era assai bella, con il nostro tavolo sotto un pergolato di una verdezza quasi abbacinante, con un bel tovagliato e piatti personalizzati, così come i posacenere.

Già alla prima scorsa veloce mi rendo però conto che il menu è decisamente invernale: pesante, troppo ricco, grasso.
Non posso tuttavia esimermi dall’ordinare gli Sciat, un antipasto tipico della Valtellina costituito di frittelle di grano saraceno. Più che altro dei bignè fritti che, in quel caso, erano ripieni di formaggio: deliziosi.

A quelli si, non avrei rinunciato neppure con 50 gradi, tanto più che costituiscono una pietanza tradizionale.
Insieme ai miei Sciat arriva una sfilza di altri antipasti per gli altri commensali ( Foto nel titolo) : tutti “pizzichiamo” e barattiamo qualcosa scambiandoci impressioni.

Devo dire che tutti gli antipasti erano molto buoni, all’altezza delle aspettative. Ottimo il pane che li accompagnava , di segale e fatto a forma di ciambella.

Dopo avere incamerato migliaia di calorie sotto forma di palline fritte e assaggi di vari salumi e formaggi, decido di proseguire il pasto rimanendo “leggera”, ed ordino un filetto ai ferri, ben cotto: specificando il “ben cotto” ai limiti della paranoia, più e più volte. Ho enfatizzato quel grado di cottura come se quella fosse stata l’ultima fetta di filetto della mia vita, tanto che il cameriere mi guardava un po’ stranito. A quel punto mi è sembrato doveroso specificare che insistevo tanto perchè altre volte, benchè avessi chiesto un filetto ben cotto, mi avevano ammannito carne praticamente cruda, e volevo essere certa che l’episodio non si ripetesse.

Detto e fatto: arriva il mio filetto. Che grondava sangue.
Non ho avuto nè la voglia nè la forza di protestare, dato che nel frattempo essendo giunte le fatidiche “ore centrali” della giornata, la calura era diventata canicola e l’unica cosa che veramente desideravo era tornare a casa a rinchiudermi con un climatizzatore a manetta.
Il mio filetto rimane dunque intonso: giacchè i camerieri continuavano a sciamare su e giù per il giardino senza peritarsi di chiedermi cosa non andasse in quella carne, l’ho passata al commensale alla mia destra che apprezza le carni al sangue, e ho ricevuto in cambio delle patate al forno, accompagnamento di un galletto a quanto ho saputo poco saporito, dall’aspetto accattivante ma in realtà totalmente prive di gusto e di sapore. Ottima invece quella che io ho definito “la carne sulla nave vichinga”: un altro piatto della tradizione valtellinese che prevede l’uso di “bavaglini” – forniti tempestivamente dal locale con i camerieri che si adoperano per fissarli sui vestiti dei commensali – perchè quella carne, per le modalità con cui viene poi tagliata e mangiata – ha la tendenza a schizzare grasso in ogni dove. Era però veramente buona.

L’unica considerazione possibile, in quel momento, è stata che avendo ingurgitato una decina di Sciat e vari altri assaggi di qualunque altra cosa, potevo ritenermi ben satolla.E comunque rimaneva il dolce, capitolo per me irrinunciabile.

 I dolci avevano tutti un aspetto gradevole, con una presentazione tutto sommato essenziale. Ma rimanevano comunque entro un modesto alveo di mediocrità: a tal proposito va ricordato che non è facile impressionare con i dolci un siciliano, ed infatti non sono rimasta affatto impressionata. Tuttavia i milanesi che pranzavano con me erano entusiasti. Non c’è dubbio comunque che a I Valtellina la cucina sia di buon livello, ancorchè – ripeto – pesante. Non c’è dubbio sul fatto che la materia prima sia di ottima qualità e che il decoro del locale ed il suo arredamento siano una cornice decisamente piacevole, ma la disattenzione del personale è imperdonabile: specialmente a

determinati livelli.Ricordate di quei soffi d’aria di cui accennavo prima? Bene, venivano si a confortarci da una calura estrema, ma portavano con sè afflati di cattivo odore insopportabile. Più prosaicamente puzza di fogna. Questo non è imputabile al ristorante dato che proprio davanti la loro porta c’era un cantiere con relativi scavi. Quello che però potrei imputare ai gestori del locale è il continuare ad usare il dehors pur in condizioni tanto sgradevoli: sarebbe bastato climatizzare a dovere l’interno e quel pranzo non sarebbe stato disturbato dall’odore di fognatura: che con 38 gradi potete ben immaginare di che entità fosse.Tutto considerato posso affermare che l’esperienza non è valsa il denaro speso (circa 70 euro a persona in media, compreso il vino) ma mi riservo di tornare in condizioni climatiche più clementi, nella speranza che nel frattempo il cantiere riesca ad ultimare i lavori. E che il personale abbia imparato un grammo di buone maniere.

Alessandra Verzera

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