Slow Wine 2012: “vino italiano tenuto in grande considerazione”

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«All’estero il vino italiano è ancora tenuto in grande considerazione, ma non dobbiamo fare l’errore di darlo per scontato, serve essere preparati, senza mai tradire la fiducia che gli estimatori ripongono in noi». Un quadro chiaro, incoraggiante e stimolante ma da non sottovalutare, quello disegnato da Tiziano Gaia, giornalista, esperto, collaboratore di Slow food e oggi anche scrittore.

Alla presentazione della guida «Slow wine 2011» ha portato la sua intensa testimonianza a New York, città sempre in divenire, «dove aprono circa 600 ristorati e wine bar nuovi ogni anno, dove il cliente è esigente ma allo stesso molto curioso, entusiasta, disponibile ad essere stupito a patto di trovare un consigliere preparato sul prodotto e di non essere preso in giro». I punti fermi del mercato americano vedono il vino italiano sempre al top, prima di Francia e Australia, «anche se il consumatore si arrocca su conoscenze acquisite in vacanza, adorando quindi etichette toscane, liguri o campane o su quelle perorate dalle campagne pubblicitarie, a volte non conoscendo molto il territorio, e faticando a sperimentare prodotti di qualità ma meno rinomati per la media locale». Confrontandosi con alcuni ragazzi dell’Università della gastronomia di Pollenzo portati in stage in Usa con i maggiori importatori nella Grande Mela, e forte della sua esperienza di sei mesi appena conclusa all’enoteca «Eataly», rivelato al pubblico della fiera di Rho che «Rispetto a vent’anni fa, i clienti sono cambiati. Non più solo persone bene dell’Upper East Side, ma oggi anche ispanici, indiani, cinesi con nuovo potere d’acquisto e in ascesa sociale, che desiderano consumare vino e necessitano di una cultura enologica, ma partendo dall’abc. Serve essere umili e non dare nulla per scontato, nemmeno che parlare di Barolo o Nebbiolo sia qualcosa di assodato per tutti. E la divulgazione deve essere continua, la città è in perenne trasformazione». Il cliente americano consuma vino americano, ma sull’importato chiede etichette toscane, piemontesi e oggi anche venete (un prosecco perché frizza e fa allegria, più bianco perché il 57% dei consumatori sono donne), beve vino solo in abbinata al cibo, per la cena, quindi va guidato tentando di proporre qualcosa di autoctono senza urtare pregiudizi e resistenze culturali derivanti appunto dai condizionamenti turistici, pubblicitari, e solo un professionista preparato e di fiducia può riuscirci. Se il mercato newyorkese va molto bene, come va il consumo nazionale?

«A Milano è incoraggiante» ha quindi spiegato Luisito Perazzo, sommelier del ristorante «Dolce vita», campione italiano nel 2005 e formatore. La città per antonomasia simbolo degli anni ’80 della prosperità, della moda e del bel vivere, risente sì del periodo di crisi, ma per quanto riguarda il consumo di vino di qualità ancora esige, e ricambia con disponibilità. «Oggi si beve con moderazione, complice anche una nuova cultura del bere e delle restrizioni del Codice della strada, ma sulla qualità non si transige. La cosa interessante poi, è che l’età media del consumatore di buon vino sta scendendo, anche i più giovani – superata la fase birra e poi cocktail, si avvicinano al vino e vogliono imparare, sono disponibili a sperimentare. E poi fortunatamente è passata la moda dell’etichetta, del nome, del marchio, oggi si preferiscono vini del territorio e noi possiamo consigliare qualcosa magari di meno noto ma che merita: noi del resto non suggeriamo soltanto, trasmettiamo conoscenza».

 

Paola Piovesana

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