Le molte dominazioni che hanno governato Sicilia hanno lasciato indelebili tradizioni nella gastronomia .Il barocco che ha dominato la tavola degli spagnoli insieme all’impiego di spezie ed aromi degli Arabi hanno creato dei veri e propri capolavori culinari di notevole difficoltà e purtroppo ormai quasi spariti dalle tavole della domenica e dai convivi familiari. Uno di questi straordinari piatti è il “Timballo di maccheroni” la cui ricetta è da attribuire ai cuochi degli Emiri e dei Vicere’ , poi rielaborata dai Monsù che lo preparavano per deliziare i palati delle famiglie dell’aristocrazia siciliana. La ricetta è databile intorno al 1860, ed una versione molto vicina all’originale viene servita durante un lauto pranzo descritto nel famoso romanzo di Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo:
“L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava, non era che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un fumo carico di aromi e si scorgevano poi i fegatini di pollo, le ovette dure, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroni corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio.”
Così descrisse Tomasi di Lampedusa questo ricco e prelibato piatto, dalla grandissima struttura, di notevole complessità realizzativa, dai tempi di preparazione oggi spesso proibitivi, e segno di magnifica ed immaginifica opulenza. Tuttavia, nei rimaneggiamenti subìti nel corso dei decenni, alcuni ingredienti sono stati sostituiti, aggiunti, tolti o modificati. Il parmigiano è una sostituzione moderna del pecorino siciliano: non dimentichiamo che a metà del 1800 il parmigiano era sconosciute alle mense dei siciliani. La stessa crema pasticciera di cui si fa spesso uso e menzione, nelle intenzioni e nella ricetta dei Monsù, era una bechamelle aromatizzata alla cannella. Quindi con picchi di dolcezza decisamente più moderati rispetto ad una canonica crema pasticciera.
Parimenti, sono spesso spariti i tartufi – sostituiti in toto dai funghi – e sono state introdotte melanzane fritte. In particolare, la melanzana fritta ha “inquinato” anche il timballo di anelletti alla palermitana che, nella sua ricetta originale di chiara ispirazione “gattopardiana”, non le prevedeva. Divagazioni sul tema hanno anche dato luogo a preparazioni più adatte al popolo, più leggere e meno cariche, ed anche meno dispendiose.
Ma il timballo del Gattopardo nella sua crosta dorata rimane conosciuto ai gourmands come il “pasticciu ( o pastizzu ) di sustanza“. Difficilissimo, oggi come oggi, trovarlo sulle tavole dei siciliani: anche per via di una sopravvenuta coscienza alimentare che induce al controllo delle calorie e del consumo dei grassi.
Questo piatto infatti, oltre all’oggettiva difficoltà di realizzazione, alla sua complessità ed ai tempi veramente lunghi di realizzazione, comporta un apporto calorico esageratamente alto, con una elevata percentuale di grassi non esattamente salutari. In tempi in cui l’aspettativa di vita non superava i 60 anni per le donne ed i 55 per gli uomini, si riteneva che la grassezza fosse sinonimo di benessere e di grandi possibilità economiche: la grassezza era quindi legata allo status sociale, ed alla sottintesa capacità di poter mangiare tutto ciò di cui si avesse voglia.
La medicina moderna e l’informazione hanno ormai da tempo sovvertito questa credenza e, di fatto, la grassezza odierna è imputabile all’assunzione di un’alimentazione ricca in carboidrati, come la pasta, il pane e le patate: cibi poveri e di basso costo che servono a “saziare” apportando ben pochi elementi nutritivi oltre che a far aumentare di peso. Oggi infatti il benessere è legato al consumo di alimenti “nobili” e poco ingrassanti, pesce in testa, e il ceto meno abbiente è di norma più “pesante” rispetto al ceto più elevato e più scolarizzato.
Ma, tenendo ben presenti questi elementi, un piatto di questa portata rimane un capriccio da regalarsi però almeno una volta nel volgere di qualche anno; se non altro per riappropriarsi delle proprie radici, se non addirittura di conoscerle, attraverso uno dei piatti più significativi e rappresentativi di tutto ciò che è passato per la nostra isola e che ha lasciato dietro di sè. Ho personalmente chiesto ad Hermes Picone, giovane e bravo chef emergente del Baglio San Pietro di Nicosia di Enna, di realizzare e di testare per me, e naturalmente per i miei lettori, questo pezzo di storia in un piatto.
Hermes ha seguìto la ricetta ritenuta la più aderente all’originale, ed ha realizzato – proprio in considerazione dell’apporto calorico e della robustezza del piatto – delle monoporzioni. Un risultato sorprendente, sia dal punto di vista visuale che per gusto. Eccovi le immagini e la ricetta di Picone, da riprodurre con estrema pazienza a casa, magari in occasione della prossima Pasqua.
